E' prassi comune, ieri come oggi, l'utilizzo delle figure retoriche di significato o tropi (in particolare similitudini, metafore, allegorie ecc...) con intento comico, finalizzato all'istituzione di una relazione, una trasposizione di significato, tanto più ardita quanto più esilarante, tra uomini e bestie. Spesso ciò si esplica in una comicità feroce e gratuita, cruda, compiuta, sic et simpliciter, nell'attacco personale. Meno spesso il lavoro del comico sembra tralasciare, almeno apparentemente, la sua vis polemica ed impulsiva, dedicandosi ad una più fine opera di rimandi e citazioni, incasellando metafore e similitudini in un contesto di più ampio respiro. Al giorno d'oggi, in particolare, si è andato via via perdendo quest'ultimo splendido costume colorando perlopiù la satira politica con inchiostri scadenti, legati indissolubilmente al tempo di composizione, tanto più crudi e violenti, tanto più destinati a sbiadirsi già dal giorno dopo. S'immagini - icasticamente - un quadro di Matisse, o di uno qualsiasi del gruppo dei Fauves, trasformarsi, decadere in un acquerello di Monet nel giro di una giornata. Si tratta di quel tipo di invettiva effimera e sterile, tesa a colpire, a vendere piuttosto che ad esprimere, ad istruire. Ed il pubblico subisce, si fa condizionare, s'imbestialisce. Non che non ci siano stati in tempi recenti esempi di tendenza inversa (penso soprattutto a Dario Fo), ma il fronte delle intellighenzie odierne in Italia sembra si faccia scrivere i testi dagli autori di Amici di Maria de Filippi. Ovvero, in parole povere, imperano l'estremizzazione delle forme, la povertà di contenuti, il parler pour parler. Lecito diventa ogni mezzo che possa aumentare le visualizzazioni su Youtube, far scalare il ranking di Google, donare 30 secondi di notorietà. Anche se di cattivo o pessimo gusto. E allora? Non sempre è stato così.
Leggiamo insieme qualche passo di Aristofane, commediografo attivo ad Atene a cavallo di V e IV sec. a.C., in particolare dai suoi Cavalieri, vincitori del primo premio al concorso teatrale comico delle feste Lenee del 424 a.C. Il loro successo molto dovette alla grande attualità della trama, che si presenta fortemente impegnata sul piano politico ed ispirata da un vivissimo sentimento anticleoniano: sotto la maschera di Paflagone era stato portato in scena il demagogo Cleone che pochi mesi prima aveva trionfato a Pilo e, presi prigionieri 192 Spartiati, era appena asceso al culmine della popolarità. Aristofane non era nuovo alla composizione di attacchi così mirati, tanto che due anni prima (426 a.C.), a seguito della rappresentazione dei suoi Babilonesi, Cleone aveva intentato un'azione legale contro di lui, al fine di censurare la sua caustica produzione poetica e probabilmente espellerlo dalla comunità. La circostanza rende evidente che "l'attacco contro Cleone non possa essere letto solo come espressione di una raffinata convenzione letteraria che ha il suo archetipo nello psogos (il "biasimo") della poesia giambica, ma vada visto principalmente come espressione di un serio impegno poetico-politico" (Mastromarco in Mastromarco-Totaro 2008, p.215). Una delle forme più interessanti in cui quest'ultimo è incanalato è nella metafora animalesca, molto frequente nei Cavalieri, secondo la prassi verosimile, presso i Greci, di assimilare l'uomo politico ad un essere mostruoso. Ciò dà adito a degli attacchi sì feroci e gratuiti, ma con alle spalle una tradizione letteraria di assoluto rilievo, nota e riconoscibile per il pubblico di Aristofane. Eccone un esempio ai vv.197-210, nella traduzione di Giuseppe Mastromarco:
I SERVO [...]
"Quando l'aquila di cuoio artigliadunca col becco ghermisca lo
stupido serpente bevitor di sangue, allora è segnata la fine per l'agliata dei
Paflagoni; ed ai trippai grande gloria dà il dio: a meno che non preferiscano
vendere salsicce".
SALSICCIAIO Ed io cosa c'entro con questo? Spiegamelo.
I SE. L'aquila di cuoio è il Paflagone, quello lì. [Indica la casa di Demo]
SAL. Perché "artigliadunca"?
I SE. Lo dice la parola, credo: con la mani adunche arraffa e porta via.
SAL. E il serpente, che significa?
I SE. E' chiarissimo: il serpente è una cosa lunga, ed anche la salsiccia è una cosa
lunga; e poi, sia la salsiccia che il serpente bevono sangue. Dunque: l'oracolo
dice che il serpente prenderà il sopravvento sull'aquila di cuoio, se non si
lascia addolcire dalle chiacchere.
Siamo nella parte finale del prologo, in cui i due servi di Demo (personificazione del popolo ateniese) cercano di convincere un venditore di salsicce di passaggio a contrapporsi ad un terzo servo, Paflagone, che ha soggiogato Demo e facendo finta di servirlo nel migliore dei modi approfitta come meglio può della sua posizione. Il passo si articola in un oracolo, che, stigmatizzando la passione tutta ateniese per i vaticini, si prefigura come una chiara parodia del combattimento tra l'aquila e il serpente già presente in Omero (Iliade XII, vv.201-207), ed in una zelante esegesi di esso fornita dal I Servo. All'interno dell'oracolo è possibile individuare due protasi ed una apodosi, considerando il tutto un periodo ipotetico. Questo tipo di rapporto logico prevede la realizzazione di entrambe le protasi per pervenire a quella dell'apodosi. La disposizione simmetrica persegue un fine cultuale, uno standard nella composizione degli oracoli. Il combattimento dell'aquila e del serpente occupa solo la prima parte dell'oracolo: il contesto mitico si dissolve già al terzo verso dell'oracolo, rendendo palese l'identificazione dei due animali con Paflagone ed il Salsicciaio Agoracrito, proiettando il proprio seguito nella realtà della commedia. Si chiarisce quindi il fine di mero pretesto, artificio retorico, del ricorso all'oracolo, tanto che dopo che l'aquila ghermisce il serpente, non ci è dato sapere altro sulle due bestie. Mentre, quindi, la prima protasi (con il riferimento mitologico) può essere letto come una semplice condizione temporale, la seconda ha esplicitamente valore ipotetico e funge da esplicitazione del passaggio di responsabilità e consegne in atto, dal divino all'umano: le condizioni sono favorevoli e al Salsicciaio sarà concessa gloria solo e se non preferirà vendere salsicce; l'aquila di cuoio e il serpente bevitore di sangue dopo il v. 209 non ricorreranno più nel testo.
Un suggerimento ad adottare, come prima metafora animalesca presente nella commedia, proprio l'aquila può essere stato un celebre oracolo del tempo che paragonava la città di Atene ad essa, "sarà aquila tra le nuvole", riportato ai vv.1013 e 1087 dei Cavalieri e ai vv.978 e 987 degli Uccelli. Punto di partenza questo, quindi, del chiaro ridimensionamento della sua maestà mitologica: "bien que l'aigle soit le roi des oiseaux et qu'il ait sa place près de Zeus, il n'en est pas moins un rapace" (Taillardat, p.416). La scelta del serpente appare, invece, fortemente vincolata dalla sua presenza in combinazione con l'aquila in Iliade XII.200-207 e non mi sembra possa essere spiegata soddisfacentemente altrimenti. È in ogni caso da rimarcare la valenza di vox media del serpente nella mitologia greca, così come del Salsicciaio nell'economia della commedia. Entrambi infatti non hanno un valore positivo o negativo assoluto, ma lo assumono in relazione alla situazione e al contesto in cui si trovano ad agire.
Un suggerimento ad adottare, come prima metafora animalesca presente nella commedia, proprio l'aquila può essere stato un celebre oracolo del tempo che paragonava la città di Atene ad essa, "sarà aquila tra le nuvole", riportato ai vv.1013 e 1087 dei Cavalieri e ai vv.978 e 987 degli Uccelli. Punto di partenza questo, quindi, del chiaro ridimensionamento della sua maestà mitologica: "bien que l'aigle soit le roi des oiseaux et qu'il ait sa place près de Zeus, il n'en est pas moins un rapace" (Taillardat, p.416). La scelta del serpente appare, invece, fortemente vincolata dalla sua presenza in combinazione con l'aquila in Iliade XII.200-207 e non mi sembra possa essere spiegata soddisfacentemente altrimenti. È in ogni caso da rimarcare la valenza di vox media del serpente nella mitologia greca, così come del Salsicciaio nell'economia della commedia. Entrambi infatti non hanno un valore positivo o negativo assoluto, ma lo assumono in relazione alla situazione e al contesto in cui si trovano ad agire.
Ai vv.1037-1044 trova spazio la seconda metafora animalesca che prenderò in esame, retaggio erodoteo e collegata inoltre notoriamente alla figura di Eracle: il leone. Anche questa figura viene presentata in una cornice oracolare, all'interno di una scena episodica che precede la sizigia epirrematica (o seconda parabasi, secondo la nomenclatura degli antichi filologi). Di seguito la mia traduzione:
PAFLAGONE [...]
"C'è una donna che nella sacra Atene partorirà un leone, il quale combatterà per il popolo contro molte zanzare come se sorvegliasse i suoi cuccioli: tu proteggilo, realizzando un muro di legno e torri di ferro". Sai cosa significa?
DEMO Per Apollo, io no!
PAFLAGONE Il dio ti ordina di mettermi al sicuro: sono io per te a far un po' da leone!
DEMO Ed in che modo, a mia insaputa, sei diventato Napoleone?
Il passo presentato rientra nell'agone a colpi di oracoli e vaticini tenuto da Paflagone e dal Salsicciaio, con giudice Demo. Si suddivide anch'esso a sua volta in oracolo e sua esegesi, la cui prima parte (l'unica qui riportata) si chiude con un gioco di parole di Demo sul nome di Antileone (nella traduzione ho voluto ricostruirne l'effetto comico e teatrale con il nome di Napoleone).
Per creare quest'oracolo Aristofane mescola tre diverse fonti tra di loro: due riguardanti la figura del leone ed una sulla sua protezione tramite un muro di legno. L'espressione "partorirà un leone", è ripresa integralmente da un oracolo tramandato da Erodoto riguardante la nascita del tiranno Cipselo (Erodoto V.92.2: "Un'aquila cova tra i monti, che genererà un leone forte, crudele: di molti spezzerà le ginocchia"). E' indubbio, però, che con questo verso Paflagone si sia voluto paragonare esplicitamente a Pericle, in quanto lo stesso Erodoto riporta che Agariste, madre del grande politico ateniese, avrebbe sognato di partorire un leone pochi giorni prima di metterlo al mondo (Erodoto VI.131.2: "[...] (Agariste) mentre era incinta, ebbe una visione in sogno, e le parve di generare un leone: e dopo pochi giorni genera, a Santippo, Pericle."). I versi aristofanei presuppongono la conoscenza di entrambi i contesti erodotei: la figura della donna nella città di Atene è presa dal sogno di Agariste mentre la sintassi e la prospettiva oracolare ricordano da vicino l'oracolo di Cipselo. Aristofane riduce, però, gli attributi erodotei ad una semplice lotta contro delle zanzare; tutto ciò secondo un procedimento di detorsio in comicum già messo in scena con la figura dell'aquila. Il leone diventa quindi una figura assolutamente incapace di incutere timore, ma al contempo ostile e nemica, come lo era già stata per Eracle, beniamino d'Aristofane, in due occasioni (il leone del Citerione e il leone Nemeo).
Tutto ciò, contrariamente a quanto si possa immaginare, non è un episodio sporadico, frutto d'un'ispirazione momentanea ed effimera, destinato a cambiar forme e contenuti nel giro d'un chiaro di luna, ma rientra in una emblematica scelta poetica. Aristofane paragona i suoi avversari a belve mostruose, ed al contempo va costruendo di sè l'immagine dell'eroe filantropo e benefattore della comunità, assimilandosi ad Eracle (eroe cui era particolarmente devoto, essendo vicino/affiliato ad una congregazione dedicata al suo culto), ripesca un elemento peculiare della mitologia classica: il combattimento dell'eroe con bestie mostruose. Ed è quindi già nei Cavalieri che con il paragone di Cleone ad animali mostruosi seguendo la scia del mito si costituisce lo zoccolo duro del sistema Aristofane/Eracle vs Cleone/mostro, esplicitato nella parabasi delle Vespe ai vv.1030-1035, che propongo qui di seguito nella traduzione di Giuseppe Mastromarco:
Per creare quest'oracolo Aristofane mescola tre diverse fonti tra di loro: due riguardanti la figura del leone ed una sulla sua protezione tramite un muro di legno. L'espressione "partorirà un leone", è ripresa integralmente da un oracolo tramandato da Erodoto riguardante la nascita del tiranno Cipselo (Erodoto V.92.2: "Un'aquila cova tra i monti, che genererà un leone forte, crudele: di molti spezzerà le ginocchia"). E' indubbio, però, che con questo verso Paflagone si sia voluto paragonare esplicitamente a Pericle, in quanto lo stesso Erodoto riporta che Agariste, madre del grande politico ateniese, avrebbe sognato di partorire un leone pochi giorni prima di metterlo al mondo (Erodoto VI.131.2: "[...] (Agariste) mentre era incinta, ebbe una visione in sogno, e le parve di generare un leone: e dopo pochi giorni genera, a Santippo, Pericle."). I versi aristofanei presuppongono la conoscenza di entrambi i contesti erodotei: la figura della donna nella città di Atene è presa dal sogno di Agariste mentre la sintassi e la prospettiva oracolare ricordano da vicino l'oracolo di Cipselo. Aristofane riduce, però, gli attributi erodotei ad una semplice lotta contro delle zanzare; tutto ciò secondo un procedimento di detorsio in comicum già messo in scena con la figura dell'aquila. Il leone diventa quindi una figura assolutamente incapace di incutere timore, ma al contempo ostile e nemica, come lo era già stata per Eracle, beniamino d'Aristofane, in due occasioni (il leone del Citerione e il leone Nemeo).
Tutto ciò, contrariamente a quanto si possa immaginare, non è un episodio sporadico, frutto d'un'ispirazione momentanea ed effimera, destinato a cambiar forme e contenuti nel giro d'un chiaro di luna, ma rientra in una emblematica scelta poetica. Aristofane paragona i suoi avversari a belve mostruose, ed al contempo va costruendo di sè l'immagine dell'eroe filantropo e benefattore della comunità, assimilandosi ad Eracle (eroe cui era particolarmente devoto, essendo vicino/affiliato ad una congregazione dedicata al suo culto), ripesca un elemento peculiare della mitologia classica: il combattimento dell'eroe con bestie mostruose. Ed è quindi già nei Cavalieri che con il paragone di Cleone ad animali mostruosi seguendo la scia del mito si costituisce lo zoccolo duro del sistema Aristofane/Eracle vs Cleone/mostro, esplicitato nella parabasi delle Vespe ai vv.1030-1035, che propongo qui di seguito nella traduzione di Giuseppe Mastromarco:
Ma, con un ardire degno di Eracle, attaccò mostri immani,
coraggiosamente scontratosi, subito, sin dall'inizio, con la
belva dai denti aguzzi, dai cui occhi di Cinna lampeggiavano
tremende saette, e cento teste di adulatori maledetti le leccavano
tutto intorno alla testa; ed aveva voce di torrente che genera distruzione,
e fetore di foca, e testicoli sozzi di Lamia, e culo di cammello.
E qui riecheggiano - tra le altre - le voci di Esiodo, Pindaro e Bacchilide, tutti presentati con addosso gli abiti sgargianti della commedia. Altro non dico, ma sfido - e sarei ben felice di perdere la sfida - altri a produrre testi, comici in particolare, di cui s'abbia a dire ancora a più di duemila anni di distanza.
Adriano Morea
Bibliografia:
J. Taillardat, Les images d'Aristophane. Etudes de langue et de style, Parigi 1965
G. Mastromarco (a cura di), Aristofane. Le commedie, Torino 1983
G. Mastromarco - P. Totaro, Storia del teatro greco, Firenze 2008
Per un approfondimento dell'ultimo passo citato consiglio la lettura dell'articolo di G. Mastromarco, L'eroe e il mostro (Aristofane, Vespe 1029 - 1044), in RFIC CXII, pp.410-423, 1989
Per leggere il testo completo dei "Cavalieri" di Aristofane, nella traduzione di Ettore Romagnoli clicca qui
Social Network