CritiCINEMA - Il tempo ritrovato, da Proust a Ruiz
Il Tempo ritrovato
Regia di Raoul Ruiz
adattamento e sceneggiatura di Gilles Taurand e Raoul Ruiz
interpreti: Cathrine Deneuve, Emmanuel Beart, Vincent Perez, John Malkovich [e altri]
Francia-Italia 1999.
Proust non amava il cinema, lo ha frequentato pochissimo e lo considerava, alla stregua dell’arte realista, una sfilata di immagini senza verità. Molti grandi cineasti, forti anche dei progressi tecnici e delle elaborazioni estetiche successive, che Proust stesso non poteva prevedere, hanno tentato di sfidarlo virtualmente sul proprio terreno, hanno cioè tentato di immaginare e, più raramente, realizzare film che riproponessero con il linguaggio specifico della nuova arte quei contenuti di verità che lo scrittore aveva affidato alla letteratura.
Trasformare Alla ricerca del tempo perduto in un’opera cinematografica si è rivelato la maggior parte delle volte un’impresa disperata. Suso Cecchi-D’amico e Luchino Visconti, Harold Pinter, Ennio Flaiano su richiesta di Federico Fellini hanno scritto sceneggiature mai realizzate e hanno dovuto affrontare problemi e sfide espressive fortemente stimolanti sul piano dell’immaginazione cinematografica, alle quali hanno risposto con soluzioni spesso geniali e di grande effetto; ma hanno dovuto rinunciare press’a poco tutti per le stesse ragioni: la commercializzazione di una produzione tratta dalla Recherche impone costi quasi insostenibili e non garantisce quel successo di pubblico che potrebbe coprirli. Per quanto ne so, ad eccezione del Tempo ritrovato di Ruiz, sono stati realizzati solo tre altri film che abbiano preso ispirazione direttamente o liberamente dal romanzo proustiano, nessuno di particolare successo o di particolare qualità estetica.
Uno dei primi problemi che un film tratto dalla Recherche deve affrontare è quello della selezione degli episodi da rappresentare, visto che seguire passo passo l’intreccio narrativo originale farebbe sfociare in una produzione chilometrica insostenibile. Privilegiare, però, solo alcune tracce narrative, come avevano fatto a loro tempo D’Amico-Visconti, Pinter e Flaiano e come ha fatto lo stesso Ruiz in questo film, significa contare su una conoscenza dell’opera da parte dello spettatore che non sempre si può dare per scontata. Si finisce, insomma, fatalmente per fare un film per intenditori, per chi già conosce il testo letterario (ma questo è un problema comune a molte trasposizioni cinematografiche).
Ruiz adotta una soluzione più specificatamente cinematografica, realizzando un film che alle tracce narrative offerte dal testo letterario antepone la forza comunicativa dell’immagine. Piuttosto che un film di narrazione, il regista offre al pubblico un film di immagini, di colori, di luci (e ombre), di inquadrature. In questo modo traduce in un linguaggio diverso da quello originale i contenuti di verità che il romanzo si proponeva di trasmettere. Alcuni esempi. Proprio per smentire la convinzione proustiana che il cinema sia una sfilata di immagini senza verità, Ruiz costruisce il personaggio di Robert de Saint-Loup facendo dire alle immagini molto più di quanto appare. Rappresentandolo in situazioni e tempi diversi, spesso in maniera contraddittoria e incoerente, fino a quando, durante un pranzo con Marcel, Robert è ripreso in primo piano, di fronte, mangia, beve, taglia la carne, deglutisce, parla, il tutto in maniera quasi compulsiva denunciando un malessere, un tarlo che lo rode dall’interno e che non ha nulla a che vedere con le belle parole che sta pronunciando sul patriottismo e sulla necessità della guerra. In un'altra scena il regista imita quasi parodiandola la proverbiale cura dei dettagli dello scrittore. Marcel sta per spiare le pratiche masochistiche di Charlus e deve guardare da uno spioncino in alto, dapprima prova sulla punta dei piedi, poi prende la prima sedia che gli capita ma si accorge che è inadatta perché ha il fondo morbido, di stoffa, finalmente esce dall’inquadratura e ne ritorna con una sedia dal fondo di legno più comoda e adatta alla bisogna. Ultimo esempio. In generale, e contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il film è molto luminoso, Ruiz usa poco i chiaroscuri e la penombra anche laddove il testo originale fa esplicito riferimento alla scarsa visibilità (ad esempio proprio nella citata scena sulle pratiche perverse di Charlus). Solo verso la fine, quando Marcel ha scoperto finalmente la sua vocazione di scrittore e prima del luminosissimo e grandioso finale, c’è una lunga sequenza immaginifica che vede Marcel bambino e Marcel adulto (la compresenza dei quali in parecchie scene è una delle genialità più vistose del film) attraversare nel fitto buio quella che solo alla fine si intuirà essere una cattedrale diroccata o, più probabilmente, in costruzione. Anche chi non ha letto il libro o non ne ricorda i particolari (è lo stesso Proust nelle ultime pagine del romanzo a paragonare la sua opera ad una cattedrale gotica) può così apprezzare per via dell’immagine il lungo percorso sotterraneo e buio che porterà alla creazione dell’Opera.