Vent'anni
di Corrado Alvaro
Giunti, Firenze 1995
con un'introduzione di Enzo Siciliano
1^ edizione: Treves, Milano 1930
2^ edizione: Bompiani, Milano 1953
Erano anch'essi, i soldati, elementi della natura, piante anche loro saltate dalla terra, e marcianti. Non avevano pensieri se non quelli del risveglio, i soliti pensieri indistinti, e insieme la gioia vaga del sole, dell'aria aperta, d'essere vivi e di camminare. Non riuscivano a rappresentarsi il mondo che avevano lasciato se non come un sentimento consueto da cui si fossero staccati, il posto che avevano lasciato nel mondo era vuoto, e loro qui, con un senso di libertà pericolosa, come ragazzi che escono la prima volta soli. Che la strada si svolgesse tranquilla, senza accidenze, che i campi avessero memoria delle opere di ieri, che l'albero stesse ancora come gli alberi che fanno frutto, proprio queste cose suggerivano il pensiero del pericolo. Vedere il nemico, ecco quello che li preoccupava e di cui avevano bisogno. (p. 63)
L'esperienza
della Prima Guerra Mondiale è vissuta in prima linea da Corrado Alvaro, che, portata a termine
la Scuola militare di Firenze, a vent’anni si arruola nell'esercito come
ufficiale-alfiere e per anzianità diventa tenente colonnello. Destinato al
123esimo reggimento di fanteria, Alvaro è costretto a interrompere la sua
esperienza in prima linea presso la zona carsica del Monte Sei Busi, in seguito
a un ferimento di non poca rilevanza che offende l'avambraccio destro, il
braccio sinistro e le mani, che costringe lo scrittore a una lunga degenza a
Firenze e poi a un periodo di convalescenza a Chieti.
Le esperienze forti e sconvolgenti della guerra, che
permeano di tessere autobiografiche tanta letteratura contemporanea, in Alvaro
non si riversano immediatamente nella forma narrativa. Dopo un'esperienza ingenua ma interessante in poesia (Poesie grigio-verdi del 1917 e Poesie del 1921), lo scrittore calabrese si misura con la narrativa di guerra, prima con una serie di racconti brevi (in particolar modo negli anni '30).
Vent'anni, edito nel 1930 per i tipi di Treves, è il primo e unico romanzo interamente dedicato alla guerra, scritto in un'estate a Positano per chiari e dichiarati intenti testimoniali e documentari, come «ricordo di un altro
tempo, che i giovani ignorano e i men giovani ricordano», ovvero è il «ricordo
di una civiltà». Ciò non toglie che l'obiettivo civile venga affiancato da quello stilistico: Alvaro, scontento della prosa poco calibrata, riprenderà in mano l'opera per una riedizione (1953), asciugando il testo originario di un centinaio di pagine e intervenendo sensibilmente su personaggi, eventi, meno profondamente sullo stile (ciò non toglie che l'interesse di queste varianti sia tale da essere attualmente oggetto di un mio studio).
A una
prima lettura, potremmo riassumere l'intreccio del romanzo come l'esperienza
bellica del ventenne Luca Fabio, meridionale trasferitosi a Firenze, presto
ufficiale nell'esercito, in prima linea sul Carso. Alla sua formazione di soldato
e, anzitutto, di giovane uomo, concorrono in massima parte gli incontri sul
campo, le amicizie, le «donne di guerra», ma anche la disciplina e il coraggio
della prima linea, in un continuo faccia a faccia con la precarietà della vita.
L'esperienza della prima linea, infatti, non è comprensibile
fino a quando non ci si trova di fronte il nemico; Fabio, dal suo ruolo di
ufficiale, sperimenta l'importanza dell'unione di ubbidienza e disciplina,
stando «ognuno al suo posto».[1]
Tuttavia,
sarebbe riduttivo chiudere il romanzo in questa sbrigativa rassegna tematica,
che lo ridurrebbe più o meno scopertamente a una prova autobiografica. In Vent'anni,
uno dei punti di forza e di debolezza al tempo stesso è invece l'annullarsi
dell'esperienza individuale di Luca Fabio entro lo stato d'animo collettivo, in
direzione di una «dilatata coralità»,[2]
per dirla con Enzo Siciliano, col rischio, talvolta, di intaccare la coesione
narrativa ai fini di un'apertura a grandangolo sull'esercito.
In
modo ben più netto rispetto ai racconti, nel corso del romanzo si realizza la
progressiva sconfitta degli ideali interventistici, o quantomeno patriottici,
che avevano mosso alcuni dei personaggi: i gesti di grande coraggio, propri di
una guerra leggendaria d'altri tempi, portano alla morte; non resta che fare il proprio dovere, pur rendendosi conto della
vuotezza di certi ordini e di addestramenti poco utili al
fronte. Del tutto particolare l’esperienza di vita che coinvolge le giovani
reclute, chiamate ad «avere una responsabilità a vent’anni», quando «una volta,
a vent’anni, uno era ancora un bambino».[3]
Il
soldato alvariano è ben lontano dall’essere fiero del proprio compito, sentito
come un dovere e mai come una missione: è un contadino spaesato,
«di una contrada non illustre», che arriva sempre in città da «un qualche paese
dell’Italia meridionale» con la «valigia di tela grigia mezzo vuota».
Nessuna spinta patriottica muove i ragazzi, per quanto i superiori cerchino di
motivarli. Anche se il tenente parla di una guerra necessaria per difendere la
patria e la terra,[4] nelle
reclute resta un profondo straniamento.
Tema
centrale al punto da dare il titolo al romanzo, il senescit iuventus: la
guerra annulla il valore dell’età anagrafica e i divari generazionali: tutti
sono chiamati a pesanti compiti, a rischiare la propria vita e quella dei
compagni:
L’età non contava più. Chi poteva dire che età avesse Fabio? E se li sentiva lui vent’anni?
È vero, pensava Fabio avviandosi lungo il margine della strada battuta dal viavai degli autocarri: ho vent’anni; ma era i vent’anni di un mondo e d’una generazione vissuti, i vent’anni di un vecchio ritratto sbiadito. Tutti avevano vent’anni; ma tra quegli avvenimenti erano tutti rimasti col cuore di quindici, e i pensieri e i sogni e le nostalgia dell’adolescenza, quando non si è come tutti e lo si vorrebbe essere. E tuttavia senza illusioni. Era venuto un giorno in cui, col timore di non crescere mai, avevano frodato d’un anno la loro età, lenta e tarda quando si è giovani; finalmente avevano detto: ho vent’anni; e che cosa farò? Ma ora dovevano fare uno sforzo della memoria per dirsi: ho vent’anni.[5]
L’unica
fuga possibile è una regressione della memoria: il ricordo dell’adolescenza
diventa un rifugio rassicurante. La chiamata alle armi blocca la crescita, e
impedisce concrete aspettative per il futuro. Nell’ultima parte di Vent’anni, dalla vicinanza angosciante
della morte nasce in Luca Fabio un impulso vitalistico che porta dapprima a
fantasie erotiche, per poi specificarsi nel bisogno di «sentirsi vicino un
essere come lui e diverso da lui», per necessità di sicurezza e di protezione.
Così, la donna assume il ruolo di «compagna» in una connotazione materna rassicurante:
Alle impressioni che gli aveva dato la morte si erano mescolati spesso pensieri carnali, che lo tenevano in un torbido incubo; ora capiva che quello era un desiderio di sentirsi vicino un essere come lui e diverso da lui, cui stringere le mani, carezzare il viso, come a un altro se stesso più debole ma sublime, ma d’una carne diversa. La donna non era più che la compagna di un lungo sonno, qualcosa come la madre per un bambino che si sveglia nel buio.[6]
La
concezione disillusa della guerra in Vent'anni si rileva anche nel
finale aperto, e testimoniano l'esperienza brutale e disillusa di chi, arrivato in guerra con ideali di patria e di uomo, si trova depauperato delle più intime certezze.
Gloria M. Ghioni
[1]Così
commenta Alvaro nell'Almanacco letterario Bompiani (1932).
[2]Enzo
Siciliano, Introduzione, in C. Alvaro, Vent'anni, Firenze,
Giunti, 1995, p. 11.
[3]Vent’anni, Milano, Treves, 1930; riedito con una revisione
importante dell’autore nel 1953, ora nella ristampa fiorentina di Giunti, 1995,
p. 33.
[4]«“Così è la guerra, ragazzi. La famiglia, la casa, ha
l’uomo che la difende e l’accresce; ma la patria non sarebbe che un gran pezzo
di terra senza senso, e non avrebbe mezzi per accrescersi e per difendersi se
non ci fossero gli uomini che sopra questa grande terra hanno costruito le loro
case, hanno allargato i loro campi, vi hanno messo la loro donna, le loro
creature, le loro bestie, i loro alberi; e tutti respirano la sua aria, e amano
sotto il suo cielo, il suo sole, il suo buon tepore. Perciò succede che a ogni
trentina d’anni, gli uomini devono pensare alla terra di tutti. Il vicino è
prepotente e dà noia; o è debole e non merita d’avere pace e prosperità. Come
fa l’uomo con gli altri uomini, la nazione lo fa con le altre nazioni. Ma noi,
dice qualcuno, stiamo bene nella nostra terra e nella nostra casa, e nessuno ci
disturba. Lo dite voi. Vi disturberà qualcuno, vi darà molto fastidio, cercherà
di prendervi il vostro, di bersi il vostro vino, macinarsi il vostro grano,
prendersi i vostri figli per soldati. O fra uomini non si sta sempre in
guerra?”
“E che guerra, signor tenente!”
“Così c’è la guerra fra le nazioni. Tutto il mondo ha
fatto sempre la guerra ed è cominciato con la guerra. La vita è corta, e pochi
se ne accorgono che il mondo ha fatto sempre la guerra. A ogni guerra dicono
che questa sarà davvero l’ultima, la fine di tute le guerre. Ma poi vengono i
nuovi che crescono, divengono forti, quello che hanno preso non gli basta, la
famiglia si è allargata, e ricominciano. Non c’è nessuno che voglia la guerra,
e tutti a un certo punto la fanno. Come lo spiegate? Date retta: i libri dicono
che nientedimeno gli uomini non hanno fatto che guerra, e il più lungo periodo
di pace che abbia avuto il mondo è stato di poco più che cinquant’anni; neppure
lo spazio della vita d’un uomo. Ma voi mi dite: sono tutte belle ragioni, ma il
fatto è che in guerra si muore. Io vi
dico che anche a vivere si muore. Soltanto, uno non se lo aspetta, e allora
sembra lontano. Chi lo vede che succede nel mondo mentre stiamo tranquilli a
casa nostra? Nello stesso minuto gente nasce e gente muore; sembra che proprio
a noi non debba toccare, e che proprio noi siamo dispensati da questo passo”» (ib., p. 74-75).
[5]Ib., p. 166.
[6]Ib., p. 167.
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