L'azzurro della speranza
di Giorgio Bàrberi Squarotti
Samuele Editore (Scilla), 2012
● Per
una sintetica web-introduzione
alla poetica di Giorgio Bàrberi Squarotti
«Io
non/ vedo nulla, vecchia anima talpa che così poco scava dentro di
sé, e/ preferisce le voci d'altri i libri d'altri i cataloghi degli
archivi» – scriveva così Giorgio Bàrberi Squarotti in Tre
soli anni,
una poesia del 1974, pubblicata nella silloge La
quarta triade
(Milano, 2000).
E
c'è tutta una dichiarazione di poetica in questi pochi versi, c'è
il segno di un orientamento.
La
vista
è il senso
cruciale per comprendere a fondo la poesia di Squarotti, la vista più
che la voce, la «voce/ vuota nell'ombra di un cespuglio debole»
(Le vane nevi,
Verona, 2002).
Seguiamo,
potremmo dire, attraverso tutto il percorso poetico, il
dipanarsi di un'intricatissima sfiducia nella voce, nella Parola –
o meglio nel «vero/ mondo da sempre, povero di esistere,/ incapace
di udire la parola,/ cieco, fra i fiori solari, il tremare/ delle
acque illimpidite, la purezza/ dei corpi intatti che la luce
accendono».
Ecco, questi corpi
di luce,
che si mostrano alla vista,
sono il fuoco dell'obbiettivo poetico di Squarotti, sono le epifanie
che salvano la voce dal farsi grido.
Testimoniano allo stesso tempo una «vacanza e l'attesa o la
nostalgia di un pieno» – così Franco Pappalardo La Rosa nella sua
prefazione a Le
Langhe e i sogni
(2003) descrive l'universo di Squarotti «da cui traspare una
concezione dominata dall'angoscia del sospetto che l'essere, la
realtà, la storia non abbiano significato», per questo «egli usa
la scrittura poetica per dare – o per ridare – un senso
all'universo».
Questi
corpi di luce
sono le testimonianze che Squarotti cerca, di un Essere che sta al
di là
della Realtà, eppure la compenetra: «I punti di riferimento dell'io
sono la sua intrinseca assenza, il suo tentativo di esistere al di là
delle pure emozioni, della pura contemplazione di qualcosa che vibra
nella luce e che, dissolvendosi rapidamente, ci illude della
continuità del nostro essere nel tempo».
Siamo
di fronte a una poetica
dello sguardo – per
usare un'idea di Antonio Prete che scrive nel Trattato
della lontananza
qualcosa a cui ho subito pensato rileggendo i versi di Squarotti:
«cercare
nel visibile una sorta di complicità, o persino di protezione […]
un movimento dello sguardo che porta sul limite del pensiero: sulla
soglia, cioè, dove il pensiero si libera da sé stesso»; e così il
poeta approfondisce le sue «rifrazioni interiori», per
trascenderle.
Questi
versi «si strutturano in una dimensione che vuole ignorare l'io e il
tempo, il mondo esterno e il divenire della Storia» – così scrive Ennio Bispuri (Direttore dell'Istituto italiano di Barcellona) su
«l'eterno presente» nella poesia di Squarotti. Ed è un eterno
presente
che si fa carne
in un altro ossimoro, sinestetico: «corpi intatti che la luce
accendono», corpi
di luce.
Giorgio Bàrberi Squarotti |
«Il
centro della poetica di Bàrberi Squarotti, il nucleo più profondo e
più nascosto della sua Poesia sembra essere dunque questo contrasto,
questo confronto e questo collegamento costante fra un Essere senza
tempo, seducente e ammaliatore, che, lasciandosi contemplare solo
attraverso singoli frammenti, appare incontaminato della sua fissità,
e un Divenire», un universo
inferiore
– per usare un'espressione di Sant'Agostino – impossibile da
cogliere nella sua interezza. «Forse per questo – continua Bispuri
– l'insistenza esplicita su continue folgorazioni rende esplicita
la poesia di Bàrberi Squarotti, che obbedisce senza eccezioni al
metabolismo emozionale dell'attenzione verso ciò che di più lo
seduce: l'immagine della donna giovane e bella. Si potrebbero citare
decine e decine di versi, più o meno costruiti sul tema proustiano
delle jeunes
filles en fleur».
Ma
non mi pare essere la dimensione umorale,
metabolica
del corpo a interessare Squarotti. Scrive Nerval in Sylvie: «La
donna reale rivoltava la nostra ingenuità. Bisognava ch'ella
apparisse come una regina o una dea e, soprattutto, che non la si
potesse avvicinare».
Più
che donne reali, dunque, sono – come per Nerval – figlie
del fuoco
le donne di Squarotti. Sono apparizioni in cui s'incontra il Terreno e il Divino.
Tilopa (mahasiddha
indiano del Buddhismo Vajrayana, 928 – 1009) scrive: «Qual è
questa realtà che trascende le forme eppure le compenetra?».
Le filles
di Squarotti oscillano sempre fra il celeste e il terrestre (da
Trionfi d’inverno: «è
la ragazza che si è spogliata/ tra gli arbusti e i fiori ancora
accesi», «la ragazzina sola, nella luce/ verde di arance acerbe
e di limoni», «la ragazza con l’ombelico nudo,/ in corsa sulla
riva dell’aurora», «…la ragazza apparve agile/ nello sciame
del buio, uscendo fuori/ dal fiume di luce che eterno scorre», «… una ragazza fresca/ davanti alla facciata d’ombra della chiesa»; da Le vane nevi: «e la ragazza che volò nell’aria/ per sbaglio…»,
«come
l’amore/ che mi resta, sognato nel ricordo/ della ragazza quasi
nuda…», «il vestito leggero e luminoso/ della ragazza…», «l’alta ragazza bruna, nel meriggio/ d’agosto incerto fra
ansia e afa, annoiata/ e pigra contemplava dalla via/ eterna di Alba
il silenzio dubbioso», «…una ragazza dolce si era seduta su
una panca, aveva/ strettissimo il vestito, nuda l’anima/ abbronzata
più d’ogni altra ora vera»).
Sono
anche Ragazze che
personificano Miti e simboli. E anche il Mito Squarotti ha in comune
con Nerval: «il
Mito costruito ai margini del vuoto» – come scrive Bispuri. Il
Mito che è congegno
di
lettura, espressione e organizzazione della Realtà. Il Mito che è
ponte mistico fra l'Idea e il Fenomeno e, di questa opposizione,
esprime tutto il contrasto, il dolore, la tragedia: «Lo
spettacolo/ ambiguo: orrore, ansia,/ sospensione e anche accelerato
tempo,/ attesa e invocazione e volti astratti,/ ed echi d'echi e
infinitamente/ ripetuti, […] le esplosioni che qui e in ogni altro
luogo/ distruggono e reinnalzano le case:/ il sapiente sa che tutto
è verità,/ e alle spalle è l’inganno, invece, il sogno,/
l'illusione felice, li vorrebbe/ contemplare e poi scrivere e
descrivere,/ e invece piange, senza fine piange»
(Platone,
2002).
Dunque
la poesia di Bàrberi Squarotti possiamo intenderla come «il
racconto dei propri sogni e dei propri miti, che si accendono e si
esauriscono nel puro atto contemplativo» (Bispuri).
In Squarotti, «visivo di razza», troviamo una contemplazione attivissima, un
velocissimo e frenetico esercizio
spirituale
che prende forma in un verso agilissimo, in una coscienza sempre desta,
«nel bagliore, nello scatto ellittico, nell'ebbrezza di un costrutto
verbale, d'una frase, o nell'eleganza di un'immagine, di una visione,
di una visività catturate dall'occhio fisico, o dalle mente o dalla
fantasia» (Franco Pappalardo La Rosa, dalla prefazione a Le
Langhe e i sogni)
Squarotti
riprende in questo la dimensione mistica della poesia di Leopardi, in
una coraggiosa circospezione del «nulla/ così limpido che più non
è la mente stessa di Dio» (La
quarta triade):
un'indagine nel finito
dell'esistenza, nel suo drama,
nella sua angoscia.
Scrive
Leopardi: «La cagione di questi sentimenti, è quell'infinito
che contiene in se stesso l'idea di una cosa terminata,
cioè al di là di cui non v'è più nulla;
di una cosa terminata per
sempre,
e che non tornerà mai
più»
(Zibaldone, 10 dicembre 1821).
Scrive
Giuseppe Savoca in Leopardi,
profilo e studi:
«si tratta di un nulla religioso, al limite la “nada” dei
mistici spagnoli e anche il “nulla” che sarà di Turoldo […]
Siamo di fronte alla narrazione di un'esperienza di innalzamento, di
sogno e di estasi […] anche per la cascata di congiunzioni “e”
che segnano la sintassi». Una congiunzione, una “e” spirituale presente anche in tutta la poetica di Squarotti ma che,
nei suoi ultimi approdi – potremmo dire –, dialoga con una
disgiunzione: la “e” accumulatoria, si alterna a una mistica “o” , che distingue senza
dividere, che traccia le distanze semantiche senza acuire le
opposizioni, una “o” che percorre coordinate trasversali.
● L'azzurro
della speranza,
di Giorgio Bàrberi Squarotti (Samuele Editore, 2012).
«C'era
un fragore non si sa se d'ira/ o festa , e grida o canti, applausi o
furie ,/ per il viale lunghissimo che porta alla fine del mondo (o
forse era/ l'inizio, oh non si capiva bene, tanto confuso era il
cammino e storto, […] c’erano troppi vecchi e troppi giovani/
afoni per esasperate voci/ o più probabilmente perché vuota/ è
ormai la parola, spenta, esaurita)./ Soltanto due ragazze,
finalmente […] si erano abbracciate e si baciavano/ nel pieno
ardore e senza fine: emblemi» – così Squarotti apre L'azzurro
della speranza,
con questa splendida meditazione che rinnova, purificate, tutte le
istanze della sua poetica.
Queste poesie, tutte composte dal
2003 al 2010, compongono una breve ma intensa cosmogonia quotidiana
che miscela efficacemente toni diaristici con
realtà mitiche e surreali («-Ti giuro, era l'autunno, un po'
nebbiose/ le colline, mi allontanai appena/ nel boschetto, ma folto
ancora e acceso dall'oro delle foglie, e d'improvviso/ vidi in un
breve spiazzo d'erba il satiro/ che mi guardava»; «Barbara […]
lì nuda, dritta/, enigmatica un poco e sorridente/ per il trionfo
certo, come quello/ di Diana sulle dèe fotografate/ al mare, sulla
conchiglia, in cima/ a Diano o al Citerone, in discoteca»).
Non
mancano riflessioni socio-politiche – evento insolito nella poesia
di Squarotti – dai toni amari, sarcastici e provocatori. Scrive in
Conad,
Coop
(Roma,
4 marzo 2010):
«Ho trentacinque anni e sono ancora/ bella: guardami, bionda, alta,
sì forse/ un poco troppo magra, ma pronta, agile [...] (vedi, io
sono in grado anche di dire/ parole da poeta per il tuo/ stupore, e
poi citare alla rinfusa/ Omero, Dante -no, non quello della/
canzone del torrente di Monforte/ o è un altro nome, forse di
Provenza-,/ Giacomo, William, il caro zio Ezra,/ con cui fui tutta
una notte a Parigi/ nel candido hotel di Babilonia e Suisse)./
Dico: è il destino baro. Mia sorella,/ che è moglie di un politico
e l’amante/ di un operaio giovane dell’Eden,/ dice che è colpa
della mia sventata/ pruderie (usa la parola inglese/ per più
disprezzo)./ Forse è vero. Faccio/ la commessa del minimercato/
della Piazza Martiri [...]».
Il volumetto si apre con una
citazione di Wisława Szymborska, da cui: «Nella prosa può esserci
tutto, anche poesia,/ ma nella poesia deve esserci solo poesia».
Subito
mi viene in mente un recente articolo di Carlo Carabba dal titolo
Meno
Sanguineti più Szymborska: liberiamo la poesia
(la Lettura, n.17, domenica 11 marzo 2012, qui il testo completo).
Carabba denuncia l'autoreferenzialità della poesia contemporanea, e
scrive: «[...] La poesia contemporanea aveva abituato il lettore a
una perplessità annoiata, cui seguivano scuse infastidite: “Mi
dispiace, io la poesia proprio non la capisco”. A un’obiezione
del genere Edoardo Sanguineti, sprezzante come suo costume, replicò:
“Non mi capiscono? Che studino!”. Bene. Studiare cosa?
Verosimilmente dei saggi firmati da esperti che mostrino e dimostrino
che Sanguineti è il massimo fra i poeti. Così, secondo la critica
post-avanguardista, eliminato il giudizio di gusto mi piace/non mi
piace, la possibilità di valutare una poesia segue il possesso di
regole rigide e inconfutabili, di competenze iniziatiche, criteri
pseudoscientifici e autoreferenziali».
La
forte e bella provocazione di Carabba, lì dove può apparire intransigente
segnala però una forte mancanza, uno spazio lasciato vuoto da un
continuo degrado del lirismo, che ha allontanato la poesia dai
lettori, la poesia dalla poesia
stessa.
E
proprio questo lirismo Squarotti recupera vivacissimo, applicando
spiriti
antichi a un linguaggio moderno, ma senza scomodare lo
sperimentalismo o l'avanguardia. Lo stesso lirismo che Vincenzo
Ostuni, nella prefazione all’antologia da lui curata Poeti
degli anni Zero (2011),
denuncia e abborisce, cavalcando l'onda debolissima di una
sperimentazione “post-modern-ica”.
In
questo senso la poesia di Squarotti s'innesta in un ampio e
attualissimo dibattito, testimoniando lo spirito di un lirismo
novecentesco ancora vivo,
e che si erge come un alfiere immobile sul disordine della poesia
contemporanea.
● Mini-sitografia
- Poesie, Giorgio Bàrberi Squarotti di Giovanni Nuscis (lapoesiaelospirito.wordpress.com). Una breve selezione di versi dal 1974 al 2003. Qui
- Le langhe e i sogni (poiein.it). Prefazione di F. Pappalardo La Rosa, e alcune poesie. Qui
- L'eterno presente nella poesia di Giorgio Bàrberi Squarotti di Ennio Bispuri (raco.cat, Quaderni di Italianistica). Qui
- La buona gara (libroitaliano.it). Silloge. Qui
- Una selezione di versi da L'azzurro della speranza (samueleeditore.it). Qui
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Giorgio
Bàrberi Squarotti.
Nato a Torino
il 14 settembre 1929. Dal 1967 al 2002 ha insegnato Letteratura
Italiana all’Università di Torino. Ha pubblicato, dopo Astrazione
e realtà (Rusconi e
Paolazzi, Milano 1960), un gran numero di opere che riguardano figure
e tempi della letteratura italiana, da Dante a Marino, Petrarca,
Ariosto, Boccaccio, D’Annunzio, Tasso, Sbarbaro, Montale, Pavese e
altri contemporanei. É il responsabile scientifico del Grande
Dizionario della Lingua Italiana dell’UTET. Ha pubblicato i libri
di poesia: La voce
roca (Scheiwiller,
Milano 1960), La
declamazione onesta (Rizzoli,
Milano 1965), Finzione
e dolore (Il
Quindici, Pisa 1970), Laberinto
d’amore (Il
Proconsolo, Firenze 1973), Notizie
della vita (Bastogi,
Livorno 1977), Ritratto
di intellettuale (Lacaita,
Manduria 1978), Il
marinaio del Mar Nero e altre poesie (Rebellato,
Cittadella 1980), La
donna delle Langhe e altri fantasmi (L’arzanà,
Torino 1980), Visioni
e altro (Piovan,
Abano terme 1983), Da
Gerico (Guida,Napoli
1984),Dalla bocca
della balena (Genesi,
Torni 1986), Un altro
libro (All’antico
mercato Saraceno, Treviso 1988), In
un altro regno (Genesi,
Torino 1990), La scena
del mondo (Genesi,
Torino 1994), In vista
del porto (Caramanica,
Marina di Minturno 1997), Dal
fondo del tempio (Genesi,
Torino 1999), Il terzo
giorno (Pironti,
Napoli 1999), Le vane
nevi (Bonaccorso,
Verona 2002), Trionfi
d’inverno (Spirali,
Milano 2003), Le
Langhe e i sogni (Joker,
Novi Ligure 2003), La
buona gara (Libroitaliano,
Ragusa 2003), La
Grazia e le Grazie (Museopossibile,
Napoli 2003), Il gioco
e il Verbo (Orient
Express, Castel Frentano 2005), La
storia vera (Zanetto,
Montichiari 2006), I
doni e la speranza (Anemone
Purpurea, Albano 2007).
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