Kerouac e il rinascimento interrotto
di Emanuele Bevilacqua
Cooper, 2007
euro 9,00
“Noi abbiamo creato il cambiamento senza versare una goccia di sangue. […] Siamo molto più liberi adesso, siamo più tolleranti verso comportamenti sessuali e stili di vita ʹdiversi' e questo in parte è dovuto anche all’apertura mentale della Beat Generation”.(Gregory Corso)
Basta scorrere l’indice di Guida alla Beat Generation di Emanuele Bevilacqua per entusiasmarsi e appassionarsi alla folle vita dei Beat. L’autore non solo presenta al lettore Jack Kerouac e compagni, ma lo informa sui loro gusti letterari e musicali (“Lo scaffale di Kerouac”; “Dj Jack”; “Beat & Jazz”; “Beat ‘n’ Rock”), ci sono schede con gli itinerari percorsi in On the Road e con le migliori citazioni, i film legati alla Beat ( Gioventù bruciata ed Easy Rider), apparati bibliografici per ogni autore, “calendari” con le ricorrenze beat da ricordare. Insomma, tutto quello che serve per lasciarsi coinvolgere.
La stagione della Beat Generation è breve ma segnata da drammatici eventi che fanno da sfondo. Il gruppo, infatti, si forma alla fine del secondo conflitto mondiale quando gli orrori appena passati ritornano con gli esperimenti atomici nell’atollo di Bikini, la guerra di Corea e del Vietnam, l’assassinio di Kennedy e di Martin Luther King senza contare la costante minaccia della guerra fredda.
I nomi principali sono i grandi amici Jack Kerouac e Neal Cassady , Gregory Corso, poeta e autore di Bomb (graficamente riproduce un fungo atomico), William Burroughs, sperimentatore con il cut-up già in uso tra i dadaisti, e Allen Ginsberg, l’autore del celebre Howl (1956), il poema censurato per oscenità e il suo editore, Lawrence Ferlinghetti, processato. Quest’ultimo contribuisce a pubblicare le opere dei Beat: nel 1953 a San Francisco apre la libreria City Lights, un omaggio al film di Charlie Chaplin, che diventa un punto di ritrovo fra i Beat e i loro sostenitori (in foto la proposta grafica di Ferlinghetti a Bomb di Gregory Corso).
Kerouac e Cassady |
L’altro ispiratore è Henry Miller, un po’ il padre dei Beat. Scrive Bevilacqua:
“È stato lui, forse, a dare il cattivo esempio. Ha amato le cose che hanno amato i Beat: la libertà di parola, il rifiuto delle convenzioni borghesi, un certo distacco dal denaro e dalle comodità, ma anche un bisogno sfrenato di scrivere e di esprimersi e di amare”.
L’ America ai tempi della Beat vive assediata nel sospetto anticomunista del Maccartismo. La morale è rigida, i costumi severi, lo stile di vita da perseguire deve essere in linea con i valori convenzionali che, però, non appartengono ai Beat incarnati, nel mito di Neal Cassady/Dean Moriarty. La loro è una vita sregolata fatta di eccessi, alcol, erba, benzedrina, eroina, comportamenti intollerabili come l’omosessualità vissuta non solo come trasgressione, ma fonte di vero amore, basti ricordare la relazione fra Neal Cassady e Allen Ginsberg. Più in generale l’atteggiamento beat si pone in contrasto rispetto al conformismo dell’America postbellica, si veda l’ambientalismo e l’ interesse per il Buddismo Zen.
L’immagine che meglio rappresenta lo spirito della Beat Generation è la strada. Essa simboleggia il bisogno di partire, andare, alleviare un disagio, un tormento, non si sa bene cosa. È buffo perché Kerouac, il Sal Paradise di On the Road (1957) non ha nemmeno la patente, è infatti Neal Cassady a riconoscere il vero significato della strada. Nelle parole di Bevilacqua, Neal
“interpreta il bisogno di tutti di andare, di spostarsi, ma non è un esploratore, non ci sono nuove frontiere da conquistare come qualcuno vuol far credere. Né sono esploratori gli altri. C’è solo un tormento che si placa spostandosi. Sono tutti a disagio tranne Neal, che è il grande navigatore dell’oceano d’asfalto”.
Corso, Ginsberg, Burroughs |
I Beat sono stati la voce ribelle di un’America conformista. Pacifisti, in opposizione agli eventi postbellici ma fondamentalmente apolitici e alla ricerca di un ricongiungimento con la loro nazione. Bevilacqua racconta dei funerali del senatore McCarthy nel 1957 a cui partecipa Ginsberg che recita un mantra indiano per l’anima del defunto. Era un tentativo di andare oltre le differenze, costruire, avvicinare, ma che purtroppo rimase incompreso.