Significati del confine
di Piero Zanini
Edizioni Bruno Mondadori, 1997
p. 183
Un giorno la gente che andò alla posta centrale di Sarajevo lesse su un muro la scritta: “Questa è Serbia”; la guerra era scoppiata già da un anno. Il giorno successivo su quello stesso muro qualcun altro aveva cancellato quella scritta provocatoria, ma ne aveva aggiunta un’altra: “Questa è Bosnia”. Anche questo tentativo di riportare le cose al loro posto, però, durava solo lo spazio di una notte. Il giorno dopo ancora, infatti, qualcuno cercò di rimettere ordine nella geografia dell’ex Iugoslavia, cancellò a sua volta la scritta del giorno prima e con la cruda lucidità di chi non vuole rassegnarsi di fronte alle altrui idiozie scrisse: “Questa è la posta, stupidi!”.
I Balcani, terra martoriata dal gioco sanguinoso della ridefinizione dei confini, diventa lo spazio geografico privilegiato di osservazione del Zanini nel tentativo di comprendere non solo da dove deriva la necessità dell’uomo di segnare lo spazio, ma anche di spiegarlo come metro del rapporto con l’altro e quindi esperienza del sé.
La sua formazione di architetto rafforza la dimensione pragmatica del tema senza rinunciare però alla profondità di fonti filosofiche, letterarie, cinematografiche che aprono il confronto su una struttura che condiziona il movimento delle nostre azioni e quindi il nostro modo di abitare il mondo.
L’originalità del testo sta
nell’interrogarsi sulle diverse dimensioni del confine inteso come difesa-offesa, come spazio del malinteso, come spazio di conflitto e infine come spazio di pacificazione. Se “per la maggior parte degli uomini vi è la necessità di vivere all’interno di una situazione spaziale dai contorni definiti” poiché “l’illimitatezza, lo sconfinato, spaventa e riduce il nostro grado di comprensione della realtà, aumenta la nostra vulnerabilità” allora è vero che questo spazio va anche difeso dagli attacchi di chi non è semplicemente l’altro ma è diventato il nemico. Le differenze cessano di essere motivo di confronto-incontro e si dilatano nel terrore della sparizione, in quello di non poter lasciare più traccia della propria identità negli affannosi quanto inutili tentativi di mantenerla intatta o ricomporne i frammenti. La riflessione sul confine diventa dunque inevitabilmente una riflessione sull’identità, su quell’Io che si conosce mentre si ri-conosce nell’altro, di colui che sta dall’altra parte di una linea con la quale si cerca di neutralizzare la tensione verso un desiderio, un bisogno comune. Quel confronto lungo un confine degenera in uno scontro proprio a causa di una somiglianza, “accade in questo modo che paradossalmente, più la differenza è piccola, sfumata, infinitesimale, più l’equivoco, il malinteso tra le parti, sarà feroce, passionale” (Jankélévitch).
Il malinteso persiste lungo il confine quando manca lo sforzo di comprendere la complessità della realtà e in alcuni momenti storici il malinteso si scatena tradendo così quel carattere contraddittorio di una linea ormai diventata frontiera, limite oltre il quale si è esclusi dall’appartenenza e dal possesso. Le popolazioni nomadi, meno interessate al possesso della terra, si orientano segnando un confine a ogni nuova fermata e sono l’esempio di come “confermare uno spazio, segnarlo, non vuol dire necessariamente chiuderlo, impedirne l’accesso agli altri”. Nonostante il confine possa essere praticato come chiusura, contiene per natura la possibilità di un movimento liberatorio che ne dissacra tale funzione: l’attraversamento. Se quest’azione nasce spesso dall’esigenza degli ultimi di migliorare le proprie condizioni di vita spostandosi verso quei Paesi che hanno monopolizzato la ricchezza, diventa insieme un gesto di resistenza a un ordine, ad uno stato delle cose deciso da altri. Il ponte di Mostar era una possibilità di attraversamento durante la guerra e ciò che fa paura, la capacità dell’uomo di orientarsi su di una cartografia intima, non a caso viene distrutto.
“Il confine persiste proprio perché l’identità nasce sempre all’interno di un contesto contrastivo e oppositivo” (Fabietti)
e tale contrasto può superare la dimensione dello scontro per essere espresso, sfogato attraverso la tensione creativa (e qui veniamo al confine come pacificazione) tanto che
“nel teatro, più che in altri ambiti, questo vuol dire avere la possibilità di poter raccontare un conflitto, anche molto violento, riproponendolo allo stesso tempo all’esterno, verso quella stessa società che lo ha innescato in maniera continuamente provocatoria”.
Zanini ricorda che dalla testa di uno dei più autentici scrittori sudamericani, Joao GuimarãesRosa, prende forma la visione di un movimento continuo nell’immagine di un uomo che trova il suo spazio annullando la costrizione imposta da ogni confine: “Un giorno un uomo fece costruire una canoa che già nella forma e nel legno sembrava fatta apposta per durare a lungo. Terminatela e salutata la famiglia stupita del suo comportamento, l’uomo vi entrò e remando si allontanò dalla sponda. Non andò in nessun posto”. Scrive Guimarães Rosa nel racconto
“ Soltanto eseguiva l’invenzione di restarsene in quegli spazi del fiume, costante nel mezzo, sempre dentro la canoa, per non saltarne fuori mai più”.
Maria Teresa Rovitto