di Fabio Ognibene
Edizioni Akkuaria, 2012
pp. 120
€ 12,00
È una questione cromatica, altroché. Ci sono libri luminosi e vividi – roba da occhiali da sole, in certi casi – e libri ombrosi e scuri. A volte è facile distinguere, con un po' di attenzione, anche i colori, appunto. Mica soltanto le luci.
Quello che rimane, raccolta di racconti firmati Fabio Ognibene, è bianco opaco, lattiginoso. Bianchissimo. E scritto particolarmente bene, con la grazia di chi scarta tutto quanto è di troppo e centellina le parole collocandole nell'unico posto per loro possibile. Provate a spostarne una e crollerà tutto. Chi ha avuto modo di leggere il precedente Ancora domani (Smasher, 2010) – seguendo, da bravo, il mio consiglio dato a suo tempo su questo sito – noterà certo una maggiore essenzialità. Sintassi sempre più concisa e senza troppi orpelli (del resto l'ultimo racconto, Quello che manca, è dedicato a Foster Wallace... intelligenti pauca, come direbbero forse quelli che Wallace non l'hanno letto mai). Ma non è il caso di indugiare su questioni di forma.
C'è un cuore, in questo libro. Banale dirlo ma tutt'altro che banale trovarlo, un cuore che non sia un organo fabbricato artificialmente con qualche parola a effetto e qualche iniezione di autocompiacimento. E la pulsazione costante è data dal bianco sporco della nebbia e della pioggia, manifestazione soffusa di vite fissate al confine esatto tra incubo e sogno. Fermate, dall'abile penna di Ognibene, nello sgretolarsi della monotona quotidianità. Un attimo prima che si spalanchi il significato vero, forse solo tanto auspicabile quanto illusorio, un attimo dopo l'intuizione disperata che dalla nebbia, interiore ed esistenziale, è possibile uscirne. O più probabilmente è possibile credere di poterne uscire. Sono diciannove storie impalpabili e, non di rado, inquietanti. Banalmente, potremmo dire che la vena di inquietudine si sostanzia intorno ad alcune tematiche ricorrenti, su tutte la scissione dell'identità e l'estraneità a se stessi. Per intenderci, leggendo un racconto come La porta, vengono in mente, tra gli altri, alcuni scritti di Borges. Penso all'Aleph, per esempio.
È una questione cromatica, altroché. Ci sono libri luminosi e vividi – roba da occhiali da sole, in certi casi – e libri ombrosi e scuri. A volte è facile distinguere, con un po' di attenzione, anche i colori, appunto. Mica soltanto le luci.
Quello che rimane, raccolta di racconti firmati Fabio Ognibene, è bianco opaco, lattiginoso. Bianchissimo. E scritto particolarmente bene, con la grazia di chi scarta tutto quanto è di troppo e centellina le parole collocandole nell'unico posto per loro possibile. Provate a spostarne una e crollerà tutto. Chi ha avuto modo di leggere il precedente Ancora domani (Smasher, 2010) – seguendo, da bravo, il mio consiglio dato a suo tempo su questo sito – noterà certo una maggiore essenzialità. Sintassi sempre più concisa e senza troppi orpelli (del resto l'ultimo racconto, Quello che manca, è dedicato a Foster Wallace... intelligenti pauca, come direbbero forse quelli che Wallace non l'hanno letto mai). Ma non è il caso di indugiare su questioni di forma.
C'è un cuore, in questo libro. Banale dirlo ma tutt'altro che banale trovarlo, un cuore che non sia un organo fabbricato artificialmente con qualche parola a effetto e qualche iniezione di autocompiacimento. E la pulsazione costante è data dal bianco sporco della nebbia e della pioggia, manifestazione soffusa di vite fissate al confine esatto tra incubo e sogno. Fermate, dall'abile penna di Ognibene, nello sgretolarsi della monotona quotidianità. Un attimo prima che si spalanchi il significato vero, forse solo tanto auspicabile quanto illusorio, un attimo dopo l'intuizione disperata che dalla nebbia, interiore ed esistenziale, è possibile uscirne. O più probabilmente è possibile credere di poterne uscire. Sono diciannove storie impalpabili e, non di rado, inquietanti. Banalmente, potremmo dire che la vena di inquietudine si sostanzia intorno ad alcune tematiche ricorrenti, su tutte la scissione dell'identità e l'estraneità a se stessi. Per intenderci, leggendo un racconto come La porta, vengono in mente, tra gli altri, alcuni scritti di Borges. Penso all'Aleph, per esempio.
La porta era aperta. [...]
Improvvisamente capisce.
Era proprio quella.
Il fuoco è vivo, la porta si richiude.
Era proprio quella del suo inseguitore.
Era in trappola.
Era entrato nell'unica casa possibile, nell'unica porta aperta.
Ma era la sua casa. Avrebbe dovuto immaginarselo. (pp. 19-20)
Spesso sono storie giocate sull'opposizione interno/esterno, stanze consumate dalle routine che si fanno prigioni e cieli piovosi al di là del muro (e non soltanto cieli: anche una misteriosa vicina di casa che si limita ad affacciarsi e ad accennare un saluto non ricambiato, una specie di elegia a nostra Signora dell'Incomunicabilità).
E poi ci sono girandole di invenzioni surreali: un treno che forse si muove e forse no, senza che nessuno dei passeggeri sappia stabilirlo con certezza, un uomo impotente che rimpiange le passate erezioni e calcola fino all'ultimo centesimo il denaro che gli occorre per vivere per altri quarantaquattro anni esatti, una gabbia d'acero per scoiattoli giapponesi che diviene, agli occhi del narratore di La vendetta, l'unico motivo che avrebbe potuto davvero impedire la fine della sua storia d'amore:
E poi in fondo è tutta colpa sua; quel giorno non mi ha mica detto: Non lasciarmi perché tra due anni, stando con me, avrai la possibilità di avere una gabbia per scoiattoli giapponesi di 1,5x1,5 metri d'acero, con intelaiature d'alluminio e con bonsai di pesco e ciliegio all'interno piantate in appositi recipienti fissati a incastro nel pavimento della struttura...! Ah, se mi avesse parlato così! Avrei potuto capire, forse. (p. 87)
Al di là dei pur interessanti spunti narrativi e al di là dell'atmosfera onirica, sospesa, che impreziosisce il libro conferendogli una fragile levità irrequieta che è forse la sua più specifica cifra stilistica, è opportuno fermare l'attenzione sullo iato, estremo e gridato in quasi ogni sua pagina, tra evanescenza e concretezza, tra indeterminazione e misura.
In 259200 secondi, breve racconto in forma di diario, è annotata l'ora precisa accanto all'indicazione del giorno, e non si hanno mai cifre tonde: «Lunedì; 6.56», «Lunedì; 18.46», «Martedì; 7.16» e via dicendo. Ma l'ossessione per la misura, il darsi disperato alla capacità analitica della matematica nel tentativo titanico di fare ordine in un mondo che l'ordine non sa cosa sia, compare in forme ben più bizzarre. Basti leggere Immobilità, intriso di una sorta di “psicosi metereologica":
Il 22 dicembre 1995, per esempio, si era alzata invano la nebbia, come del resto si sarebbe alzata invano ancora parecchie volte.
Il 7 gennaio 1996, per dirne una, o il 4 febbraio 2001. Ricordo quel mattino del 18 novembre 1999, non si riusciva a vedere i propri piedi!
E quella sera, il 5 gennaio 2002! (p. 27)
E ancora, in Il giorno di Natale (ovvero: la certezza delle effemeridi di sole e luna) troviamo indicati, nelle prima otto righe, l'altezza e il peso del protagonista, le dimensioni del suo sesso e l'esatta temperatura registrata in cucina. E potremmo continuare a lungo con gli esempi.
La capacità di Ognibene sta nell'evitare di descrivere e nel saper far intuire. Quello che davvero conta, in fondo, è appena tratteggiato, detto a bassa voce e quasi en passant.
Il bianco, dicevamo all'inizio. Possiamo parlarne, certo, scrivere parole su parole spiegando che cosa sia e rilevare le differenze rispetto ad altri colori...ma lo si deve, soprattutto, vedere. Ecco, l'autore sa farcelo vedere, sa farlo emergere con apparente spontaneità dal suo libro. E non sapresti dire come ciò sia possibile.
È una questione di colori, sì, ma soprattutto immagino sia una questione di bravura, altroché. (È doveroso menzionare anche l'illustratrice del libro, Sara Garagnani, che coi suoi ineffabili disegni ha saputo rendere magistralmente, e non era facile, l'essenza del libro).