Gli anni impossibili
di Romano Bilenchi
BUR, 2001
La siccità, racconto lungo pubblicato nel 1940 e poi confluito, dopo più di quarant'anni, nella trilogia Gli anni impossibili (1984, insieme a La miseria e al più tardo Il gelo) si inserisce a tutti gli effetti nella lista dei Bildungsromans “eterodossi” del Novecento italiano. Può essere infatti accostato, per analogie ricorrenti, almeno a Tozzi (Con gli occhi chiusi, 1919, ma soprattutto Il podere, 1918), Moravia (Gli indifferenti, 1929), Morante (L’isola di Arturo, 1957). La formazione di un io, spesso narrante, diventa fertile paradigma del mondo perché capace di tradurre in immagine dissoluzioni e conflitti. Il narratore del racconto coglie se stesso in uno dei passi fondamentali della crescita: la presa di coscienza delle relazioni famigliari e dell’umanità dei loro
componenti. Umanità, nel contesto della formazione, equivale a fallibilità: la svolta consiste in un vero e proprio Götterdämmerung, un crepuscolo degli dei. Lo spiccato taglio autobiografico non esclude, anzi favorisce, uno slancio epicizzante.
L’Olimpo famigliare di Bilenchi
ricorda anche un altro capolavoro della letteratura italiana, in cui il
Bildungsroman è vettore di un affresco corale: I Malavoglia (1881). Come nell’opera verghiana, il perno
fondamentale della famiglia non è il padre, ma il patriarca: il nonno dell’io
narrante. Occorre evitare una tentazione, sopra sfiorata: affermare, cioè, che
l’io narrante di Bilenchi rintracci nel nonno una divinità suprema. Dio è
presente: è un Dio cristiano ma rurale. E non coincide perfettamente con
l’immagine del nonno: egli è, nell’immaginario di Bilenchi, assimilabile
all’Eroe deificato. Non Ζεύς Πατέρ (Zeus Padre) dunque, ma Prometeo: Prometeo demiurgo, creatore della fortuna famigliare
tramite anni di fatica; Prometeo incatenato, «leone ammalato e nostalgico di
vita attiva in immense selvagge foreste». Il narratore è alla continua ricerca
di un rapporto esclusivo con questo Eroe in catene, catene che,
significativamente, egli identifica con l’incomprensione dei parenti (madre,
padre, nonna), i quali covano «alcuni dei più orribili sentimenti che andavano
a racchiudersi nel cuore degli uomini e delle donne: indifferenza, disamore,
odio, crudeltà», e sono capaci di ammorbare perfino il nido domestico.
Non a caso, il narratore ci
tiene, per ben due volte, a sottolineare che il sentimento nato, sebbene nato
in un fertile campo di devozione, tra lui e il nonno è amicizia, non
vassallaggio («egli mi era sempre piaciuto […] perché si intratteneva
volentieri, da pari a pari, coi
ragazzi»). Specchio di questo legame esclusivo è l’eden che i due riescono a
costruire intorno al podere acquistato dal nonno: una parentesi di armonia
naturale. Tuttavia, l’illusione arcadica è ben presto scossa da minacce che
incombono su di essa: furti, devastazioni, piene; infine, la siccità. La sola
presenza nominale di queste minacce fa vacillare quell’intero mondo; il sole,
«terribile mostro», lo distrugge del tutto. Il sole distrugge anche le sostanze
familiari e, infine, materializza la propria simbolicità distruttiva in un
incendio. Assente il nonno, il padre diventa l’interlocutore finale del
discorso amicale («Mi parlò da pari a
pari, calmo e affettuoso […] come un fratello maggiore»). L’Eroe era
sicurezza, ma anche specchio dell’inquietudine: il fuoco purifica
l’inquietudine serbando la speranza; l’ansia titanica ed esclusivista lascia il
posto a una pacificazione nella solidarietà. Si tratta del primo capitolo di una Bildung, una formazione tutta definire.
L. Ingallinella
L. Ingallinella