di Antonella Anedda
Mondadori, 2012
119 pp.
16,00 €
La
poesia di Antonella Anedda affonda le sue radici nella tradizione del Novecento
italiano. La specificazione “lirica”, per questo tipo di scrittura, sembrerebbe più che appropriata: infatti, anche laddove essa si apre o addirittura
sfocia nella prosa tout court, non
perde mai di mira un’idea alta, sublime della poesia (e, dunque, della parola) che non di rado dà luogo a esiti che si potrebbero definire chiaroscurali per
non dire propriamente “ermetici”.
L’ultima fatica della
poetessa romana (ma di origini sarde), Salva
con nome, conferma in un certo senso questa ipotesi. Il sintagma del titolo
genera una velata e apparente polisemia che si ritrova poi nei singoli testi
che compongono la raccolta: come è noto, nel linguaggio informatico-digitale esso
designa la possibilità di archiviare i files
(documenti, si noti bene, immateriali, composti da sequenze alfanumeriche di
bit e non di atomi) in uno spazio altrettanto virtuale che, per analogia,
chiamiamo “memoria”; tuttavia, in senso lato, questa “salvezza” allude alle
proprietà specifiche del secondo termine del sintagma, al «nome», cioè alla
parola che crea mondi dal nulla e che preserva dalla dispersione o, se si
vuole, dalla distruzione del tempo. I due sensi, come si vede, non si escludono
a vicenda, anzi si intersecano continuamente nella trama di versi e prosa “cucita”
dalla Anedda:
Cuci una foglia vicino alle parole, cuci le parole tra loro, guarda una foglia come viene soffiata lontano.
Il tempo mentre scriviamo vola, noi moriamo a noi stessi mentre intorno ci cresce la vita e la realtà si addensa, s’intreccia, diventa una radice che sale fino a un tronco e ridiventa foglio.Da sempre mi mancano le parole e io ne ho nostalgia.Per questo cucio, cucio, cucio.(Cuci una foglia…)
La «paura» (lemma che
compare nei titoli di diverse poesie), contrapposta dunque alla “salvezza” del
titolo, è in sostanza quella della morte, quest’ultima intesa come disgregazione
della materia e come oblio delle flebili tracce che hanno segnato un passaggio
nello «spazio» (altro lemma frequente, e, laddove ricorre nei titoli, sempre accoppiato
con la già ricordata «paura») della vita, sempre in bilico tra la concretezza e
il disfacimento («lo spazio che faceva esponendoci / vuoti di luce, poi
sfaldati», Spettri). Da qui ecco l’urgenza
della Anedda di comporre un mosaico con brandelli di ricordi e “occasioni”, spesso
attinti da un «passato anche remoto» (come dice il risvolto di copertina), che
trova piena formulazione nel testo in prosa che chiude la raccolta, Visi. Collages. Isola della Maddalena.
È una poesia, questa,
che chiama a raccolta un passato che è insieme soggettivo e atemporale, figure familiari
evanescenti (come nei testi che compongono la seconda sezione della raccolta, Pneumologia), luoghi distanziati nel
tempo e nello spazio (Cucina 2005, Tunisi. Giugno 2011, Corsica 1980), nella consapevolezza che «siamo
mortali, mortalmente spaventati […]. / Basta un sogno sbagliato / e la luce
rode dove non c’è riparo» (Coro: La paura
ci rende più forti?), e che è un’illusione «questo cercare / morti in vita»
(Orto), ma, allo stesso tempo,
prendendo atto e confidando nella forza della parola che, per dirla con il poeta, «vince di mille secoli
il silenzio».
Pietro Russo