Qualche settimana fa, in una
libreria di Genova, ho acquistato un libretto, in offerta speciale: Dieci domande sui libri, di Herbert R.
Lottman (47 pagine, circa 4 euro, 1993, Sellerio editore Palermo, traduzione di Stefano Mauri). Cito dalla bandella:
«Dieci domande sui libri è il testo di una lezione tenuta da Herbert R. Lottman (corrispondente per l’estero della rivista specializzata “Publishers Weekly”, esperto di tendenze dell’industria editoriale e consulente internazionale) il 31 gennaio 1992 in un seminario della scuola per librai “Umberto e Elisabetta Mauri”. Una lezione esposta in forma di risposte a domande sul futuro della specie libro […]»
Cosa può dirci un libro di
vent’anni fa su libro e letteratura e sul mercato editoriale, considerando che
oggi ci sono alcune diversità rispetto all’epoca (basterebbe il solo e-book)?
In teoria, se abbiamo pregiudizi che ci fan considerare la nostra epoca come la
più disastrata della storia, poco; in pratica, se pensiamo che gli esseri umani
alla fin fine sian sempre gli stessi nonostante il tempo che passa, molto.
Nella prima pagina, Lottman dice:
«Passo gran parte del mio tempo con persone che lavorano nel settore librario […] Vado anche alle Fiere, alle troppe Fiere […]. Professionisti e non, mi fanno spesso domande come: “C’è la crisi del libro in questo o quel Paese?”»
La prima delle dieci domande di
questo libretto è dunque: «Il commercio librario è in crisi? È una crisi
universale?»
Lottman inizia a rispondere così:
«Una delle cose che piace ai bambini, a detta degli psicologi, è spaventarsi o essere spaventati dagli altri. C’è una specie di adulto che fa la stessa cosa; è colui che si occupa di libri. Spesso, in Francia o in Spagna o in Italia, guardando i risultati di un’indagine sulla lettura, si scopre che il 50% o 60% della popolazione non legge (o non compra mai) un libro, che il 60 o 70% legge solo un libro all’anno, ecc. – e questo dovrebbe scioccarci. Ma ciò presupporrebbe che noi sapessimo in che percentuale la popolazione leggeva o comprava libri 25 o 50 o 100 anni fa. Se lo sapessimo veramente, ci sentiremmo meglio, perché scopriremmo che le statistiche di oggi sono le più favorevoli che si possano avere. I libri non sono mai stati distribuiti così diffusamente e non sono mai costati meno; sicuramente ci sono più lettori e consumatori di libri oggi che in passato.Certo, in periodo di recessione, si compra meno di tutto – e di questo ci accorgiamo.»
E, continuando:
«“Non siete stufi di sentire che la letteratura è in crisi”, ha chiesto l’editore francese Hubert Nyssen di recente, “che gli editori sono matti, che i librai non sanno fare il loro mestiere, che i francesi non leggono?” Nyssen […] aggiunge che è ben stufo di sentire queste lamentele. “A volte penso”, dice, “che se tutta quell’energia venisse spesa per migliorare le cose che vanno male, tutto migliorerebbe. Possiamo negare che vengono pubblicati buoni libri, che i librai se ne occupano, che i critici ne scrivono e che i lettori li leggono?”»
Tornando all’introduzione, di
Luciano Mauri, leggiamo:
«Da sempre e dovunque tutte le persone interessate all’editoria libraria […] si lamentano per la scarsa diffusione dei libri.Nessun livello di vendita, nessuna quantità o qualità mai venduta in qualsiasi parte del mondo e in qualunque epoca ha generato altro che un lamento di insoddisfazione. Questo benché sia dimostratissimo che si sono venduti negli ultimi cinquecento anni sempre più libri.Perché allora questa insoddisfazione perenne e planetaria?Forse perché tutti avvertono in modo più o meno consapevole che il libro è uno specchio della situazione sociale e culturale di un paese e la sua diffusione, se in crescita o in diminuzione, un inesorabile segno di progresso o decadenza.Ma il libro non è soltanto questo. Veicolo deputato a diffondere e conservare il sapere e forse la verità, riflette l’ansia oltre che le speranze di chi vorrebbe trovarsi già in quel luogo e in quel tempo in cui si leggerebbe di più come causa ed effetto ad un tempo di un paradiso terrestre sempre all’orizzonte e mai raggiunto.»
Lottman, Dieci domande sui libri |
Questi estratti, pubblicati
ricordo nel 1993, ci obbligano a farci molte domande: è proprio vero che Italia
non si legge? È fondato questo pensiero unico o è solo un comodo conformismo? Non
avvertiamo una schizofrenica contraddizione quando ci lamentiamo un giorno per
la scarsità di lettori, e quello successivo per l’eccesso di “gente” ai centinaia
di festival letterari e alle fiere (il Salone del Libro di Torino, o la Fiera del Libro per Ragazzi
di Bologna, sono sempre strapieni)? O quando pensiamo, tristi, “nessuno legge”, e dopo un minuto
deploriamo l’eccessiva produzione
libraria (di cui qualcuno, evidentemente, usufruisce) tanto da invocare una grottesca
“decrescita felice”?
Certo, se confrontiamo l’uditorio
libresco a quello televisivo o cinematografico o discografico o videoludico, la
risposta è: “sì, ci son pochi lettori”: ma forse nei nostri ragionamenti
esclusivamente quantitativi, l’errore è questo: confrontare mele e pere. La
lettura è un’attività che richiede impegno, isolamento, e piacere e passione
per carità, ma presuppone una “fatica” anche fisica, rispetto allo schermo o al
disco, che la rende naturalmente meno appetibile (“Hai letto quel libro?” -
“No, però ho visto il film!”).
In Italia – a prescindere dalle
contingenze del momento, come questa, durante la quale però non sono solo gli
editori a essere in difficoltà economica – gli editori abbondano, e nonostante
tutto esistono da anni anche piccole e medie case editrici di qualità: vuol
dire dunque che si vende anche letteratura di qualità, e che dunque ci sono i
lettori. Ci sono i lettori forti, che comprano e leggono 20, 30, 40 o anche 50
libri all’anno: sono in minoranza, rispetto agli occasionali da 1 o 2 libri, ma
ciò vuol dire che non si legge?
Inciso: Ernesto Ferrero, ospite
da Fabio Fazio il 5 maggio, fa notare che esistono anche i libri allegati ai periodici; che nelle statistiche sui lettori non
sono incluse le biblioteche e i loro utenti; che non si calcola che spesso una copia di un libro viene prestata (amici, parenti...) e letta dunque da più di una persona; che in Italia ci sono circa 2,5/3
milioni di lettori forti (che potrebbero comunque aumentare, male non
farebbe); che “i lettori forti italiani sono più forti dei lettori forti degli altri Paesi”.
La lettura, perciò, non può
essere rinchiusa in poveri numeri, è un fenomeno talmente umorale e
indisciplinato che subisce una violenza dequalificante quando viene inquadrata
nelle tabelle di vendita che si usano per saponette e topexan. Posso anche non
comprare libri per 6 mesi, ma leggerne, in quegli stessi 6 mesi, 20 che avevo
in casa. I letterati hanno in sospetto il mercato e il marketing, ma non è
un’analisi essa stessa “mercantile” quella che utilizziamo quando facciam la
conta decontestualizzata dei lettori? Forse tutto nasce buffamente da un
misterioso impulso solipsistico, per il quale ogni lettore forte pensa di
essere l’unico sul pianeta.
Ricordo un’intervista a Roberto
Calasso, di Silvia Truzzi, che uscì su «Il fatto quotidiano» del 26 novembre
2010:
«Domanda: “È vero che in Italia si legge poco?”Risposta: “Ma no, ma no. È una banalità. Mi dia retta, lo dicono quelli che non leggono”.»
Questo negativismo si nota non
solo quando si parla di mercato editoriale, ma anche nelle discussioni sulla
letteratura odierna: quante volte abbiamo sentito da critici e lettori che la
letteratura, oggi, è in decadenza? Che è tutto mercato e non ci sono più i
libri di una volta? Sembra che oggi tutti gli scrittori siano incapaci,
asserviti al mercato, che non ci sia più niente da leggere. Ai best-seller
viene imputata la colpa di essere dei best-seller, e su di loro o sulle liceità
d’esistenza di Fabio Volo o Federico Moccia si fanno grandi caciare: ma i
best-seller, dalla Invernizio (che Gramsci definiva “onesta gallina della
letteratura popolare”) in poi ci sono sempre stati, addirittura “servono”, e
non hanno mai ucciso la “vera” letteratura come ci vogliono far credere oggi. Oggi
esistono scrittori eccezionali, ottimi, buoni, discreti, mediocri, pessimi:
come è nella fisiologia della storia umana: e allora perché tutto questo
catastrofismo militante? Siamo incorreggibili passatisti? Perenni lamentosi?
Chiudiamo con Dostoesvkij, che ci
mostra come il mondo di quasi 150 anni fa non fosse poi tanto diverso:
«Idee morali al giorno d’oggi non esistono: sono scomparse a un tratto completamente e, quel ch’è peggio, sembra non siano mai esistite.»«E prima non ce n’erano?»«Meglio lasciare questo argomento,» disse Kraft con visibile stanchezza.Mi commosse la sua dolorosa serietà. Mi vergognai del mio egoismo e cercai d’adeguarmi al suo stato d’animo.«L’epoca attuale,» cominciò dopo aver taciuto qualche minuto e continuando a guardare in aria: «l’epoca attuale è il tempo della mediocrità aurea e dell’insensibilità, della passione per l’ignoranza, della pigrizia, dell’incapacità al lavoro e dell’aspirazione a trovar tutto già bell’e pronto. Nessuno pensa; di rado si trova qualcuno che concepisca un’idea.»Di nuovo s’interruppe e tacque un po’; io ascoltavo.«Oggi disboscano la Russia, ne esauriscono il suolo, lo trasformano in steppa e lo preparano per i calmucchi. Se apparisse un uomo che nutrisse ancora qualche speranza nell’avvenire e piantasse un albero, tutti ne riderebbero: “Vivrai tu forse fino a vederlo cresciuto?” D’altra parte, coloro che desiderano il bene discutono intorno a quello che sarà tra mille anni. L’idea che ci univa è sparita. Tutti agiscono come si trovassero in una locanda; come se domani dovessero lasciare la Russia; tutti vivono soltanto per il proprio tornaconto…»
(Fëdor M. Dostoevskij, L’adolescente
(1875), traduzione di Eva Amendola Kühn, Einaudi, Torino 1997).
Piero Fadda