di Paola Soriga
Einaudi 2012
pagg. 140, Euro 15,50
Ciò che mi ha spinto a comprare
l’esordio di Paola Soriga (per il gossip, sorella minore di Flavio) è stata la
curiosità, poiché su internet e sul giornale «La Nuova Sardegna» ho letto
recensioni tendenzialmente positive. Pieno di fiducia, spendo i 15,50 euro per
140 pagine (Einaudi Stile Libero Big), e apro il libro.
Si legge la storia di Ida,
giovane staffetta partigiana pre-adolescente, sarda spostata a Roma, che passa
buona parte delle giornate nascosta in una grotta per paura dei fascisti e dei
nazisti che la potrebbero catturare: tra i salti di memoria scopriamo così
frammenti della vecchia vita in un paesino sardo, e di quella continentale, con
sempre in primo piano i primi vagiti dell’amore: dall’attrazione pura di
bambina per il professore di scuola in Sardegna, a quella più consapevole per
Antonio, bel ragazzo dai riccioli neri e gli occhi chiari. Questa, all’osso, la
trama.
Già da metà lettura, però, ho
iniziato a avere perplessità, tanto che ho faticato a concludere il libro,
nonostante la sua brevità.
Il primo fattore per me respingente è stato lo stile della Soriga: una penna ineccepibile nella forma, elegante, senza punti deboli o cadute, ma proprio per questo fortemente impersonale: conseguenza, a mio parere, di una scelta rischiosa: ossia quella di appoggiarsi in tutto e per tutto all’anacoluto, del quale mi sento di dire che c’è stato un abuso. L’intenzione suppongo fosse quella di valorizzare il registro non programmatico dell’oralità, considerando l’età della protagonista: e qual è il rischio dell’anacoluto? È quello della spersonalizzazione e della superficialità, quando non è accompagnato da una profondità di contenuti: e questo è il secondo fattore per me respingente, meno immediato e constatabile ovviamente solo andando avanti fino alla fine. Per mancanza di profondità dei contenuti, intendo prima di tutto le caratterizzazioni di personaggi e della protagonista: tutti, senza eccezione, persone senza spigoli, monodimensionali, senza zone oscure o nascoste, senza quei non detti che rendono vero l’uomo. Tutte le lacrime (tante) e i sorrisi (pochi) in «Dove finisce Roma» sono disciplinati e ordinati: arrivano quando ce li aspettiamo, e sembra quasi che assecondino l’aspettativa del lettore; pare che il loro primo fine sia quello consolatorio e di intrattenimento, ossia quello che (per me – che forse esagero nella mia concezione) è letale per la letteratura. Un libro pieno di statue di cera: bellissime, ma finte.
Il primo fattore per me respingente è stato lo stile della Soriga: una penna ineccepibile nella forma, elegante, senza punti deboli o cadute, ma proprio per questo fortemente impersonale: conseguenza, a mio parere, di una scelta rischiosa: ossia quella di appoggiarsi in tutto e per tutto all’anacoluto, del quale mi sento di dire che c’è stato un abuso. L’intenzione suppongo fosse quella di valorizzare il registro non programmatico dell’oralità, considerando l’età della protagonista: e qual è il rischio dell’anacoluto? È quello della spersonalizzazione e della superficialità, quando non è accompagnato da una profondità di contenuti: e questo è il secondo fattore per me respingente, meno immediato e constatabile ovviamente solo andando avanti fino alla fine. Per mancanza di profondità dei contenuti, intendo prima di tutto le caratterizzazioni di personaggi e della protagonista: tutti, senza eccezione, persone senza spigoli, monodimensionali, senza zone oscure o nascoste, senza quei non detti che rendono vero l’uomo. Tutte le lacrime (tante) e i sorrisi (pochi) in «Dove finisce Roma» sono disciplinati e ordinati: arrivano quando ce li aspettiamo, e sembra quasi che assecondino l’aspettativa del lettore; pare che il loro primo fine sia quello consolatorio e di intrattenimento, ossia quello che (per me – che forse esagero nella mia concezione) è letale per la letteratura. Un libro pieno di statue di cera: bellissime, ma finte.
A conferma, possiamo notare come
tutti siano personaggi “buoni”: gli antifascisti.
«L’antifascismo è per natura.»
Ma ne siamo certi? Scrivere un
libro, nel 2012, in
cui tutti i personaggi siano buoni antifascisti senza sfumature non è una via
facile? Non è un’adesione troppo semplice al “senno di poi”? Da un punto di
vista letterario, cosa mi dà un libro che dice ai lettori quello che vogliono
sentirsi dire? La vicenda di Ida si sviluppa esattamente come ci si aspetta: le
avversità affrontate con coraggio, le malinconie e le speranze, con la classica
morte tragica finale di un innocente.
Forse si voleva raccontare solo
una storia d’amore, o indirettamente i nostri tempi, o entrambi: ma perché
scegliere questo periodo storico per piegarlo a esigenze di rassicurazione? La
letteratura deve essere terreno di ricerca, non conferma strumentale delle
nostre certezze o, peggio, adulazione emotiva del lettore.
Personalmente, mi è sembrato di leggere un libro programmato per lo schermo, per una fruizione il più possibile facile e comoda per il consumatore.
Non può non venirmi alla mente
«Le benevole», di Jonathan Littell (Einaudi, 2007), in cui il protagonista è Maximilian
Aue, un giovane ufficiale nazista che – pur nelle sue parossistiche immoralità
e amoralità – mi racconta la natura umana con tutti i suoi umori più spregevoli
e nauseanti, dicendomi che anche io li contengo, e dicendomi tutto quello che
non vorrei sentire: è questa, per me, Letteratura.
Post scriptum: forse l'intenzione dell'autrice è esplicitata in una frase di Valeria Parrella:
«[...] Nella penna sorprendente di una donna, giovane all'anagrafe, ma dalla scrittura solidissima, nel suo sapersi commuovere, e saper commuovere raccontando le storie giuste [il corsivo è mio, n.d.A.], quelle che dal passato della nostra Repubblica portano all'oggi [...].»
Piero Fadda
Social Network