Amedeo
di Giacomo Debenedetti
Vanni Schewiller, 1967
Poche pagine - una trentina - lunghi periodi, introspezioni, immagini scolpite da parole convolute, ricercate, di foggia antica, e la storia di un uomo che aspira ad essere un artista, forse la vita di Giacomo Debenedetti stesso. Amedeo è un racconto giovanile del professore e critico letterario che trovò facilmente spazio nell'ambiente degli intellettuali del secolo scorso, per acume e per quella dose di passione con cui raccontò dei protagonisti della nostra letteratura. Scritto nel 1923 e conservato in quel cassetto in cui gli scrittori gettano via tutte le opere che non ritengono destinate ad avere, letteralmente, più di 25 lettori, venne pubblicato nel 1926 sotto suggerimento di un amico, come primo di una serie di racconti. Divisa in appena quattro capitoli, simili a respiri, a pause, la vita di Amedeo ci viene descritta come un percorso battuto in solitudine, nella severità delle idee e nella speranza di un'ascesi, di un riscatto. Ascesi apparentemente difficile quando il nemico contro cui il giovane combatte è il mondo, la famiglia, una madre affettuosa quanto ansiosa, e un gruppo di compagni bulli e facili all'irrisione.
Si restrinse pertanto in se medesimo, sordo a ogni fresca voce che gli venisse di fuori; né poté acquistare, per via d'alcuni scambi, alcuna novità d'intrusioni: il suo patrimonio fu quello dell'avaro esoso, che non s'accresce: Amedeo non conobbe l'esigenza di comunicare se stessi agli altri.
Amedeo
non era il comune bambino vivace, pronto al gioco, che si diletti
"fingendo in cortile una guerra, o il naufragio di un bastimento
fabbricato con due sedie"; ai discorsi degli altri, soprattutto dei suoi
coetanei, rispondeva abbarbicandosi in cima ad un silenzio e ad un'indifferenza
sdegnosi, riflesso di un'idea di superiorità. Idea che gli veniva dal credersi
diverso, disinteressato alle cose più comuni, agli argomenti che definiva
frivoli e leggeri. In realtà, non pensava né faceva nulla che potesse
giustificare quel suo sentimento, quel suo essere speciale e quel disprezzare
tanto le idee altrui quanto i cambiamenti del fisico e le pulsioni che per un
certo periodo lo avevano quasi reso fiero e fortificato nell'animo. Col passare
degli anni, Amedeo si era scoperto vuoto e inattivo.
Gli sembrava, confrontandosi, di non avere mai né fatte né vedute le cose fatte e vedute dagli altri. Non aveva forse mai bevuto con sete, mangiato con fame; non si era mai ridestato un mattino con la sensazione consolata che un raggio di sole lo ravvolgesse. Queste cose le sapeva tutte dagli altri, quasi senza poterle controllare.
Si
era creduto eccellente, si era finto capace, ma non aveva prodotto altro che
nuvole di incertezze attraversate da fulmini di onnipotenza. La sua vita,
insomma, non era stata scandita da tappe fondamentali o segretamente
importanti: non un'amicizia sincera e duratura, non una lite, non una delusione
vera, conseguenza di un progetto inseguito con slancio, non un amore. Anche per
quello credeva di non avere "né l'animo, né il tempo". Compiuti i
venticinque anni, decise che sarebbe diventato uno scrittore o che avrebbe
fatto, in linea più generale, della letteratura la sua vita. Così iniziò
l'attesa, l'attesa di un'idea, di un'ispirazione che potesse tirarlo fuori da
quella stanza buia e noiosa in cui aveva trascorso i suoi anni migliori. Non si
sentiva in grado di lavorare, non per inettitudine, ma perché temeva il
giudizio
e interpretava ogni minimo gesto degli altri come un implicito annunzio di quello: un sorriso scoperto o anche soltanto temuto lo turbava per giornate intere, da chiunque venisse.
In
fondo, però, credeva nel destino, o almeno vi credette sino al giorno in cui si
vide recapire una lettera parte di una catena che, per non sfidar la sorte ma
farsela benevola, avrebbe dovuto riscrivere e inviare a nove persone. E da tale
gesto scaturì in lui un’idea di cambiamento. Che la sua vita, poi, cambi
davvero, non ci è dato saperlo. Debenedetti non scrive nulla in proposito.
Certo, se Amedeo fosse il suo riflesso, il suo alter ego, sapremmo bene come le
cose proseguirono e si conclusero. Amedeo voleva soprattutto essere un artista
che andando alla ricerca di sé, rifiuti la normalità e si innalzi per non
restarvi impantanato.
Anche
se privo di trama, questo breve racconto o direi quasi sfogo diaristico scritto
in terza persona, somiglia a tanti romanzi dei primi del novecento in cui
l’uomo si confessa fragile ma non arrendevole: le sue passioni, le sua
aspirazioni sono elevatissime ed egli lo confessa al mondo, attraverso le
pagine di un diario o attraverso appunti e racconti che, come Amedeo, non sarebbero mai stati letti se
la letteratura sì detta non fosse andata alla ricerca di questi suoi figli
minori e se gli studiosi non se ne fossero occupati con interesse.
Oltre
la simpatia o l’indifferenza che il suo protagonista può suscitare nel lettore,
oltre il linguaggio ricercato dell’autore, la bellezza di questo libro è una
bellezza che si rivolge alla mente, la quale resta silenziosa davanti a dubbi e
pensieri, come se Amedeo svelasse il comune timore che la nostra esistenza
venga tarpata o dall’insicurezza o dallo slancio di potenza in cui si rifiuta
qualunque cosa al di fuori del sé.