Spesso
dimentichiamo di essere tutti immersi in un unico labirinto. O, forse, lo
sappiamo. Ma per evitare di pensarci, per evitare di scoprirci in un enigma
senza uscita, diamo al labirinto un nome che possa rendere ogni cosa razionale:
“mondo”. Purtroppo, tale nome non ha nessuna attinenza con il suo contenuto.
Anzi, il suo contenuto è esattamente il contrario. Però ci aiuta, ci illude. Il
fatto tragico è che l’illusione esclude dal nostro sguardo la realtà, ciò che
accade. E a noi sta bene, fa comodo. Per Alessandra Giusti, invece, questo non
è tollerabile. Lei, dal labirinto in cui scrive, ha deciso di aprire gli occhi
per rispolverare un’umanità sepolta dalla paura dell’Occidente, per osservare
poeticamente la luna, quel piccolo satellite che illumina il mondo durante la
notte.
“Come ci si
può chiudere nel proprio deserto,
nell’ampiezza
sterile
del voler
essere centro da soli? […]”. (Pag. 25).
Alessandra
Giusti è Toscana. Ha vissuto per molto tempo a Rughi, in provincia di Lucca,
città in cui è nata, prima di spostarsi a Quarrata, vicino Pistoia. Si è
laureata in filosofia a Pisa, ma è di formazione artistica. È co-redattrice
della rivista politico-culturale “Arcipelago di Lucca”, e scrive di questioni
internazionali, in modo particolare sull’America Latina. Nel 2011, ha dato alle
stampe, con “Aletti Editore”, il suo primo libro di poesie, intitolato “Il
labirinto e la luna”. Attraverso la poesia, ella dà voce alle cicatrici incise
dall’imperialismo e dal capitalismo; tra i suoi versi, le parole di chi ha
subito ingiustizie: «La Poesia e la Filosofia,
insieme alla scrittura, sono le mie passioni principali da quando ho cominciato
a pensare con la mia testa e da anni mi interesso di un problema antico quanto
la stessa filosofia, il problema della giustizia. Sono rimasta profondamente
scioccata, infinitamente addolorata e indignata per le gravi, efferate violenze
che interi popoli e persone hanno subito nella storia e che, se in forme
diverse, continuano a subire tutt’oggi, oppressi dalle ragioni della
geopolitica e dell’economia. Per questo, nel mio piccolo, sto cercando, con
ogni mezzo in mio possesso, di fare tutto il possibile, di fare quanto è in mio
potere per contribuire a eliminare le ingiustizie dalle nostre società, per
smascherare menzogne antiche e moderne e denunciare certi stati di cose. Questo
libro è un invito a esplorare dietro le apparenze».
Le apparenze,
difatti, vengono esplorate attraverso tre sezioni. Nella prima, la Giusti narra
con un penna coraggiosa alcune tragiche vicende dei popoli del mondo,
arricchite da note e precisi riferimenti storici; le forme espressive adottate
ricordano, con evidenza, i versi del poeta cileno Pablo Neruda.
Più lirico, e
inabissato verso aspetti esistenziali, è il linguaggio adottato nella seconda
sezione; ma non mancano affatto i temi sociali, finemente rielaborati. È qui
che la poesia dell’autrice si fa più genuina: gli enigmi della vita sono
accompagnati da una dolcezza ben ritmata:
[…] I bambini
si chiedono
con cosa
faremo l’acqua
se l’azzurro
finisce
o cosa
penseranno le nuvole
del fumo che
sale dalle fabbriche,
chi sveglia il
sole quando dorme. (Pag. 34).
Nell’ultima
parte, la Giusti illustra piccoli ritratti pieni di colori, ma dal gusto
malinconico. Tra versi teneri, e autentici pezzi di cronaca, viene fuori uno
spaccato singolare del mondo, fatto di uomini e di affetti: «L’ultima sezione è
una raccolta di ritratti di stranieri che ho conosciuto e con i quali ho
parlato a lungo. Nei racconti che mi hanno fatto delle loro esperienze ho
percepito malinconia, malinconia per la realtà che vivono qui, diversa da
quella immaginata e nostalgia per i propri affetti, per le proprie terre, che
tuttavia era inevitabile lasciare. E poi c’è la mia malinconia che nasce dal
riscontrare l’incomprensione da parte nostra di queste persone, i pregiudizi
attraverso i quali li guardiamo e ci rivolgiamo loro, indubbiamente influenzati
dal discorso politico e dei mass media che hanno tematizzato stabilmente il
rapporto tra immigrazione e criminalità. Il coinvolgimento degli immigrati
nella criminalità è diventato ormai una sorta di passaggio obbligato nel
discorso politico, istituzionale, dei media e quotidiano sull’immigrazione.
Indipendentemente dall’effettivo coinvolgimento o meno di questi nel settore
illegale, da una parte gli apparati informativi operano una specifica
mediazione simbolica che ha un peso estremamente rilevante nell’affermarsi di
un senso comune dominante che vede nell’ immigrato la principale fonte di
insicurezza urbana; dall’altra, diversi attori che si collocano su un terreno
intermedio fra immigrati e mezzi d’informazione (le forze dell’ordine, i
politici, i comitati cittadini a vocazione “sicuritaria”), elaborano
interpretazioni e generano azioni che hanno l’effetto di produrre o riprodurre
quello stesso senso comune, imponendosi al sistema delle comunicazioni di massa
e condizionandolo così come ne sono condizionati».
Facendo una
breve analisi sociologica, qual è la situazione oggi?
«Negli ultimi
decenni, riguardo il discorso mediale sull’immigrazione, si è passati da
un’“emergenza-razzismo” a un’“emergenza-criminalità”. L’aumento di questo tipo
di notizie dipende, appunto, dal mutamento di atteggiamento di certi attori
sociali oltre al fatto che, mutato il clima di opinione, questo tipo di notizie
interessa di più i lettori. Per non parlare poi della xenofobia e del razzismo
dei quali è intrisa l’ideologia della Lega Nord: basta dare un’occhiata ai
manifesti che riguardano proprio gli immigrati. Se ci fermassimo a parlare con
gli immigrati, ci accorgeremmo invece che sono ben diversi da come li
immaginiamo e depositari di una meravigliosa umanità che non può che
arricchirci e alla quale ho cercato di accennare in queste poesie».
Dario Orphée
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