Dario Crapanzano (Milano, 1939) è l'autore de Il giallo di via Tadino e La bella del Chiaravalle. Entrambi editi da Fratelli Frilli Editore tra il 2011 e il 2012, hanno riscosso un ottimo successo di pubblico soprattutto nelle librerie meneghine. I due romanzi hanno come protagonista Mario Arrigoni, commissario capo del commissariato milanese di Porta Venezia, coadiuvato dal suo vice Mastrantonio e dall'agente Di Pasquale. Le vicende si svolgono negli anni '50, recuperano la memoria di una città che negli ultimi decenni sembrava perduta.
Prima de Il giallo di via Tadino lei scrisse un piccolo testo nel 1970 e uno nel 2008. Lei quindi esordisce piuttosto tardi. Perché?
Scrivere richiede mente sgombra,
concentrazione e tempo a disposizione. Non a caso, il primo libello,
“A Milano con la ragazza… e no”, l’ho scritto in un periodo
di disoccupazione giovanile, e il secondo dopo aver terminato
l’attività lavorativa. Attività che mi ha impegnato molto per più
di trentacinque anni, impedendomi praticamente di dedicarmi ad altro.
Presentando il suo ultimo libro, La bella del Chiaravalle, lei ha confessato che il giallo le dà l'opportunità di parlare della Milano di un tempo. Un'operazione ben diversa da quella apertamente nostalgica, ad esempio, di Francesco Guccini con il Dizionario delle cose perdute. Ce ne può parlare?
C’è stato un periodo, mi pare negli
anni ’80, dove uscirono diversi libri dedicati al mondo dell’Italia
pre e postbellica, dovuti a bravissimi autori come Marchi e Venè,
per non parlare della stessa Mafai. Forse i tempi sono maturi per una
nuova “operazione nostalgia”: avevo pensato di dedicarle un libro
in modo diretto e tradizionale, ma poi ho accettato il fatto che non
sarei riuscito a fare meglio di chi mi aveva così brillantemente
preceduto. Perciò, non volendo rinunciare al progetto, ho provato a
inserire quei contenuti in una struttura narrativa diversa, cioè una
specie di romanzo giallo, ritenendo che forse in tal modo sarei
riuscito più facilmente ad attirare l’attenzione dei lettori. In
quanto a Guccini, il suo libro, che ho appena sfogliato, al di là
dell’idea, ha il grosso vantaggio del nome dell’autore…
I suoi due romanzi sono entrambi ambientati a Milano, in tempi e luoghi precisi. Il suo editore, Fratelli Frilli, cui va il merito di aver creduto in lei, è di Genova. Non le sembra un paradosso, considerando il fatto che Milano è la capitale dell'editoria italiana?
La ragione per cui l’editore è
genovese è del tutto casuale e altrettanto banale. Una volta
terminato Il giallo di via Tadino, l’ho spedito a una dozzina
di case editrici, milanesi e no, scelte fra le medio-piccole,
ritenendo le grandi fuori della mia portata. Frilli era in lista
anche perché sapevo della sua specializzazione nel settore noir,
anche se prevalentemente orientato a storie genovesi e liguri. A un
anno e mezzo dall’invio, mi hanno proposto la pubblicazione solo
Frilli, con cui ho deciso di uscire, e una piccola, neonata casa
editrice milanese. Visto come sono andate a Milano le vendite di
entrambi i libri, penso che qualche editore della mia città si stia
mangiando le mani… ma va bene così.
I due romanzi hanno in comune il Commissario Arrigoni, i suoi assistenti, ma anche la tipologia delle vittime: due donne che "fanno la vita". C'è una ragione particolare?
Ancora una volta, la vittima, così
come il “giallo”, fa parte dei pretesti che consentono di
descrivere l’ambiente in cui la storia si svolge. Nel primo caso (Il giallo di via Tadino, ndr),
il mondo popolare della case di ringhiera milanesi, nel secondo (La bella del Chiaravalle, ndr) quello delle case chiuse: mondi che alcuni, sempre meno!, ricordano e
molti non conoscono del tutto. Il fatto che le due vittime siano
entrambe donne mi ha attirato qualche critica di misoginia: in
realtà, secondo me, descrivere vita, morte e miracoli di una donna,
meglio se bella, comporta la possibilità di attingere a una maggior
ricchezza di particolari. Se poi si tratta di persone dalla dubbia
moralità, le scoperte possono essere ancora più interessanti e
piccanti, come accade per tutto ciò che appartiene alla categoria
del proibito. Nel caso de La bella del Chiaravalle, la scelta
di una vittima prostituta era pressoché inevitabile.
Il suo sguardo sulla Milano degli anni '50 è sì nostalgico, ma non lacrimevole. Ho sempre visto gli anni '80 come uno spartiacque nella storia della città. Lei pensa che si stia tornando a una Milano un po' meno da bere?
Alla prima parte della domanda ha già
implicitamente risposto lei. Venendo all’oggi, senz’altro stiamo
tornando verso una Milano meno, molto meno “da bere”. Anche se la
stessa ha cercato di sopravvivere alla sua naturale data di scadenza.
D’altronde, si tratta di una scelta forzata, condizionata se non
imposta dal momento di forte recessione economica che stiamo
attraversando. Un esempio concreto di questa svolta è la vittoria,
alle recenti elezioni comunali milanesi, di una coalizione di
centrosinistra, dopo vent’anni di centrodestra.
Veniamo ora al Commissario Arrigoni. Ne La bella del Chiaravalle il lettore inizia ad affezionarsi a questo burbero e buono poliziotto. Alcune sue manie, come il toscano e il marsala, possono entrare nell'immaginario comune. Com'è nato Arrigoni?
Il commissario Arrigoni è nato un po’
per caso un po’ per una vaga ispirazione. Dovendo scegliere,
ambientando la storia negli anni ’50, ho cercato di rappresentare
il mio protagonista come un esemplare di quella categoria di persone
che, pur provenendo dalle classi sociali più umili, hanno saputo
elevarsi a forza di studio, sacrifici e volontà. Premiato anche sul
piano più strettamente personale dal matrimonio con una bellissima
ex indossatrice, conquistata dalle sue doti umane, intellettuali e
professionali. L’ho chiamato Mario Arrigoni, nome e cognome
tipicamente milanesi. Poi, un commissario, per quanto integerrimo,
per non diventare noioso deve anche avere qualche innocente
“vizietto”: in questo caso, la passione per la buona tavola
(retaggio peraltro di un passato di fame), il toscano e il marsala.
Come ha insegnato Simenon, sono anche questi particolari a dar vita
al personaggio e a farlo amare dal lettore. Ecco, un po’ debitore
nei confronti di Maigret lo sono (la pipa, il Calvados), anche se
Arrigoni ha una sua personalità del tutto autonoma.
Passiamo agli assistenti di Arrigoni: Mastrantanio e Di Pasquale sono due personaggi antitetici. Ma l'ispettore Giovine acquista spazio e incuriosisce molto. Ce ne parli.
Come in ogni commissariato che si
rispetti, ci vuole un bel contorno che faccia compagnia al
protagonista. Ovviamente, i due aiutanti sono diversi per età,
formazione e carattere. Forse ho un po’ esagerato nelle negatività
di Mastrantonio, e infatti ho cercato di attutirne gli spigoli, come
già si può notare nel secondo romanzo. In quanto all’ispettore Giovine, di
per sé non sarebbe stato necessario allo sviluppo della storia, ma è
uscito… dalla penna quasi per caso, fino ad assumere una sua
fisionomia e identità, pur nei limiti del modesto contributo che dà
all’inchiesta. Rappresenta “il moderno che avanza”, a metà
strada come età fra il giovanissimo Di Pasquale e il più anziano
vice (Mastrantonio, ndr). Più difficile inserirlo, infatti non accade, in una inchiesta
al fianco di Arrigoni: sento che il personaggio ha uno spessore da
protagonista e non da comprimario, tale da rendere forse problematici
la convivenza e il gioco delle parti con il commissario capo. Credo
che il suo spazio per ora debba restare sì ben definito, ma a
latere.
Protagonista il Commissario, la città, ma anche un'epoca: gli anni '50, al termine dei quali sarebbero sparite le case di tolleranza. Questo decennio è un po' il suo tempo perduto?
Gli anni ’50 sono stati importanti
per me e per tutti quelli della mia generazione, rappresentando il
periodo che va circa dai dieci ai vent’anni. Anni di voglia di
rinascita dopo la guerra, di fermento, di ricerca del benessere, anni
molto positivi per chi vi cresceva in mezzo. Ci si divertiva a
giocare a Monopoli o al pallone, dove capitava, mentre l’oratorio
era il luogo dove incontrare gli amici e praticare lo sport,
soprattutto la pallacanestro, non ancora chiamata basket. Più che il
mio “tempo perduto”, penso che quegli anni abbiano rappresentato
un periodo fresco e spontaneo, in cui, pur se più poveri, si viveva
più serenamente, accontentandosi di quello che c’era pur
desiderando sempre di migliorare. Se posso paragonare i ragazzini e i
ragazzi di allora ai tecnologici coetanei figli del Duemila, vedo la
stessa differenza che c’è fra i polli ruspanti e quelli allevati
in batteria.
Inutile dire che se lei continua così la zona del Lazaretto in Porta Venezia diventerà, oltre che luogo manzoniano, il cuore pulsante della Milano di Arrigoni. Quartiere borghese e popolare al contempo, dove convivono piccole botteghe artigiane e grandi store. C'è un motivo...perché proprio Porta Venezia?
Porta Venezia perché è la zona di
Milano dove sono nato e sono vissuto, spostandomi da via Felice
Casati (traversa di Corso Buenos Aires, ndr) a Loreto (uno degli estremi del Corso, l'altro sono i Bastioni di Porta Venezia, ndr) intorno ai 19 anni. E’ vero che il quartiere è
stato sempre un mix di borghesia e popolo, spesso conviventi
all’interno della stessa via. Ma non si ha idea di quanto sia
cambiato. Mi limito ai negozi di corso Buenos Aires: oggi, a fronte a
un’offerta infinita di vario abbigliamento e intimo, più qualche
megastore e alcuni bar, si trovano in tutto il corso, e pure le vie
attorno non scherzano, solo due/tre negozi alimentari. Ai tempi di
Arrigoni, nello stesso corso trovavi, pur non mancando eleganti
camicerie, pelletterie e negozi di tessuti pregiati: panetterie,
latterie, salumerie, drogherie, macellai, due grandi pescherie e
persino la rivendita di bicilette “Gloria”. Più cinque cinema di
vario livello e il teatro/cinema Puccini! Per fortuna ci sono ancora
tre belle e ben fornite librerie, allora inesistenti.
Intervista a cura di Alessio Piras