di Sergio Donato
Wepub, 2012
È qui che dobbiamo stare di Sergio Donato contiene lo spazio di una necessità già nel titolo, e riesce a cogliere in ogni racconto breve esattamente quel momento della vita dei personaggi che dice più di tutti la loro deriva.
La prima scena di ogni racconto simula un movimento, in quelle parole o in quei gesti nient’altro che residui della bellezza degli slanci del passato: “Appena usciti, Maria si aggrappò al braccio di Leonardo camminando a testa bassa. Percorsero il marciapiede lentamente” questo l’incipit del primo racconto Mia moglie ha una merceria e ancora “Senti, che dici? Ora andiamo?- chiese Gwen”, nel secondo.
Si avverte insieme ai personaggi l’esigenza di spostarsi nell’illusione di cambiare la prospettiva dei loro giorni uguali, uguali nell’attesa di tempi migliori e nella sensazione di morire lentamente. Anche la morte sembra arrivare uguale nei racconti, sia essa violenta o anonima, non sconvolge, non spaventa. Solo i dialoghi con i bambini restituiscono quella spontaneità che altrove si trasforma in malinteso. In questi luoghi si vive il fallimento senza sincerità, la stessa che manca anche in quell’intimità che si ottiene ormai solo come reazione a qualche provocazione stentata.
La consapevolezza iniziale, è qui che dobbiamo stare, si fa insana e abortisce nel silenzio ogni tentativo di cambiamento, pietrificato da quello che si deve ma non si vuole, già da bambini:
“Papà è arrabbiato. Mi guarda cercando di sorridere e non ci riesce. Capisco che vuole fare finta che questa cosa non stia succedendo. Provo a sorridere anch’io ma è tutto così strano e non ho voglia di farlo, però devo. Mi esce storto.”
L’ammissione iniziale dunque non è espressione di una scelta ed è questa la condanna che i personaggi condividono, tale da far rimanere la loro vita un posto senza mai avere il coraggio di renderlo il posto.
Maria Teresa Rovitto
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