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Dunque ripartendo dalla sua idea di letteratura, incarnendola in una concreta pratica narrativa, il pigro e malato Proust sente di aver imboccato la strada giusta: scrive forsennatamente, battendo ogni record di resistenza alla fatica – tra il 4 e il 6 luglio del 1909 a Cabourg scrive per 60 ore consecutive. Sottolineo l’aneddoto non per alimentare una mitologia della quale l’auspicabile rivitalizzazione della lezione proustiana non avrebbe nessun bisogno, rimarco l’aneddoto per evidenziare che da un certo momento della sua vita Proust non solo trasfigura la sua biografia in un romanzo, ma è il romanzo stesso ad installarsi pesantemente nella sua vita, a guidarla e regolarla. Così verso la fine di quell’anno può scrivere alla sua amica Geneviève Straus “Ho appena cominciato – e finito – un lungo romanzo”. Asserzione, come si vede, un po’ delirante, ma che manifesta una delle verità essenziali della Ricerca. Con quella frase Proust vuole dire che ha trovato e scritto i due piloni fondamentali entro i quali costruire tutta la sua opera: l’inizio, il primo capitolo, Combray, che determina il punto di vista, lo stile e il rapporto tra il Narratore e la materia biografia prestata dall’autore, e la fine, l’ultimo capitolo, Il ballo in maschera, nel quale è l’autore stesso a riprendere in mano le redini dell’opera illustrandone il senso estetico ed esistenziale. Dal quel momento e fino agli ultimi giorni di vita Proust continuerà a lavorare al suo romanzo, aggiornandolo ai nuovi avvenimenti della sua vita e alle nuove scoperte della sua speculazione, ma quei due capitoli, seppure rimaneggiati e rifiniti, e soprattutto la loro funzione nell’economia dell’opera, continueranno ad essere i due piloni dell’immensa arcata.
L'opera si espande sempre più: pensata inizialmente in due volumi – il tempo perduto e Il tempo ritrovato – l’autore ne fa dattilografare la prima parte, la sottopone a qualcuno dei più fidati amici (che se ne dichiarano entusiasti) e comincia, tramite intermediari, a cercare un editore. Nel 1912 si rivolge a Calmette per intercedere presso Fasquelle e al suo amico Antoine Bibesco per presentarla alla Nouvelle Revue Française (che è anche una casa editrice). Calmette forse non fa tutto il possibile per aiutare il suo amico, si mostra indolente (già l’anno precedente non aveva dato seguito alla proposta proustiana di pubblicarla a puntate sul Figaro); Bibesco non riesce a convincere il gruppo NRF, che annoverava i letterati e gli intellettuali più prestigiosi dell’epoca, sulla qualità dell’opera. Alla fine di quell’anno, dopo mesi di attesa, Proust riceve, quasi contemporaneamente, i cortesi rifiuti di Fasquelle e della NRF. Fa un ulteriore tentativo presso Ollendorff, dal quale riceve uno sgarbato giudizio negativo. Nel frattempo, l’opera continua a crescere e tre volumi ora la conterrebbero a stento. Proust comincia ad avere fretta, non solo perché sente di aver scritto un’opera importante, ma anche perché si sente minacciato dalla malattia. Sempre tramite un suo amico, s’accorda con il giovane editore Grasset per una pubblicazione in tre volumi della quale l’autore stesso si accolla le spese di edizione. Nel novembre del 1913 arriva finalmente in libreria Dalla parte di Swann, che in quarta di copertina, sotto il titolo generale, Alla ricerca del tempo perduto, annuncia gli altri due volumi, La parte dei Guermantes e Il Tempo ritrovato. Ora la Ricerca comincia ad incontrare i lettori, per i quali è nata. Pochi, per la verità, e inizialmente, salvo le recensioni o le risposte entusiaste degli amici, riceve un’accoglienza tiepida: si elogia l’originalità dello stile, si sottolinea l’ingegnosità delle metafore, ma gli si rimprovera la futilità dei temi, la svagatezza della composizione, il soggettivismo e la prolissità dell’analisi. E del resto per riconoscere in quel primo volume la “composizione dogmatica”, ovvero la rigorosa costruzione di un percorso esistenziale significativo, sarebbero stati necessari una sensibilità artistica e un genio critico che allora, e ora, non erano e non sono moneta corrente tra chi, quotidianamente e professionalmente, si occupa di mediare tra le novità editoriali e il pubblico dei lettori comuni. Sono, però, da menzionare due eccezioni: una per spirito sciovinistico e l’altra per la portata delle conseguenze. Ad appena un mese dall’uscita dello Swann, l’italiano Lucio D’ambra pubblica sulla “Rassegna contemporanea” un articolo incondizionatamente elogiativo, paragona Proust a Stendhal e lo indica come lo scrittore del futuro. Dalla corrispondenza di Proust non risulta che D’ambra lo conoscesse o che qualche amico dello scrittore francese potesse aver “imbeccato” lo scrittore-giornalista italiano, e quella recensione, così preveggente, rimane una specie di riconfortante “miracolo letterario”. In patria, invece, chi si accorge subito dell’incommensurabile valore letterario dell’opera che quel primo volume faceva balenare, è Jacques Rivière, giovane critico che faceva capo al gruppo NRF. Ne nascerà una corrispondenza e un’intesa che avrà conseguenze di non poco conto nella biografia di Proust e nella vicenda filologica, la vita del romanzo.
“A lungo, mi sono coricato di buonora”. Il romanzo inizia con questa spudorata menzogna, che è anche un sorriso amorevole e, al contempo, canzonatorio nei confronti dell’inesausto tentativo della madre di mandarlo a letto presto. È la frase – provata e corretta più volte, come attestano i brogliacci dello scrittore, tanto per ribadire come la disinvolta naturalità dello stile proustiano sia il frutto di disciplina e di estenuante lavoro scrittorio – è la frase che segna l’assunzione di un punto di vista, quello del personaggio-narrante, diverso da quello dell’autore che gli fornisce i materiali biografici, ma non il suo punto di vista. Il romanzo non svilupperà una vicenda della quale l’autore ha già scoperto il senso. Il personaggio-narrante, e con lui il lettore, dovranno compiere un percorso, dovranno fraintendere, sbagliare, avviarsi su false piste, prima che la Verità, il senso di una vita, illumini retrospettivamente il significato del percorso. Non è l’autore, dall’alto di una Verità acquisita, a parlare (solo saltuariamente e quasi mordendosi la lingua s’intrufolerà nel racconto), è il personaggio-narrante, confitto alla stessa altezza dello spazio-tempo narrato, il titolare della parola romanzesca. Così di fronte alla generale incomprensione dello Swann, che per la maggior parte dei lettori non si capiva dove “volesse andare a parare”, lo stesso Proust, nella corrispondenza e nelle interviste, rivendicava il carattere “dogmatico” dell’opera, che solo lo svelamento finale, l’ultimo capitolo (scritto, come si ricorderà, immediatamente dopo il primo), avrebbe reso evidente. In fondo sarebbe bastato anticipare quelle conclusioni per rendere tutto più chiaro e “godibile”, ma in questo caso la Verità profonda dell’opera sarebbe stata offerta già bell’e pronta, il lettore non avrebbe dovuto scoprirla da sé e dentro di sé, l’effetto estetico e filosofico, cui l’opera proustiana mirava, sarebbe svanito.
Le fantasticherie dell’uomo in dormiveglia pongono immediatamente il narratore in una situazione liminare, sulla soglia tra la realtà e l’infinito dei mondi possibili. Lentamente, dalla galassia fluttuante delle virtualità narrative emergono dal buio, dall’indefinito, dal caos i corpi astrali che la scrittura, l’affabulazione narrativa, il logos illuminano, definiscono, ordinano. L’uomo in dormiveglia, ulteriore diffrazione tra l’autore e il narratore, sul crinale tra luce e buio, ordine e caos, perdita e recupero passa “la maggior parte della notte a ricordare la nostra vita d’un tempo a Combray, in casa della prozia, oppure a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia, in altri luoghi ancora, a ricordare i posti, le persone che vi avevo conosciute, quel che di loro avevo visto, quello che me ne avevano raccontato”. Così come, nella realtà, la materia narrativa si era lentamente distaccata, illuminata, definita e ordinata dal primigenio impulso saggistico, ora, nel romanzo, essa si distacca, s’illumina, si definisce e si ordina dal caotico universo dei mondi possibili. Il passaggio dalla realtà biografica alla scrittura è guidato dal lievito della trasfigurazione letteraria che ne serba traccia – come l’ordine mantiene in sé le tracce del caos, la veglia del sonno, la narrazione del saggio, ecc. – e ne impedisce la perdita, l’insignificanza e la nullificazione.
L'opera si espande sempre più: pensata inizialmente in due volumi – il tempo perduto e Il tempo ritrovato – l’autore ne fa dattilografare la prima parte, la sottopone a qualcuno dei più fidati amici (che se ne dichiarano entusiasti) e comincia, tramite intermediari, a cercare un editore. Nel 1912 si rivolge a Calmette per intercedere presso Fasquelle e al suo amico Antoine Bibesco per presentarla alla Nouvelle Revue Française (che è anche una casa editrice). Calmette forse non fa tutto il possibile per aiutare il suo amico, si mostra indolente (già l’anno precedente non aveva dato seguito alla proposta proustiana di pubblicarla a puntate sul Figaro); Bibesco non riesce a convincere il gruppo NRF, che annoverava i letterati e gli intellettuali più prestigiosi dell’epoca, sulla qualità dell’opera. Alla fine di quell’anno, dopo mesi di attesa, Proust riceve, quasi contemporaneamente, i cortesi rifiuti di Fasquelle e della NRF. Fa un ulteriore tentativo presso Ollendorff, dal quale riceve uno sgarbato giudizio negativo. Nel frattempo, l’opera continua a crescere e tre volumi ora la conterrebbero a stento. Proust comincia ad avere fretta, non solo perché sente di aver scritto un’opera importante, ma anche perché si sente minacciato dalla malattia. Sempre tramite un suo amico, s’accorda con il giovane editore Grasset per una pubblicazione in tre volumi della quale l’autore stesso si accolla le spese di edizione. Nel novembre del 1913 arriva finalmente in libreria Dalla parte di Swann, che in quarta di copertina, sotto il titolo generale, Alla ricerca del tempo perduto, annuncia gli altri due volumi, La parte dei Guermantes e Il Tempo ritrovato. Ora la Ricerca comincia ad incontrare i lettori, per i quali è nata. Pochi, per la verità, e inizialmente, salvo le recensioni o le risposte entusiaste degli amici, riceve un’accoglienza tiepida: si elogia l’originalità dello stile, si sottolinea l’ingegnosità delle metafore, ma gli si rimprovera la futilità dei temi, la svagatezza della composizione, il soggettivismo e la prolissità dell’analisi. E del resto per riconoscere in quel primo volume la “composizione dogmatica”, ovvero la rigorosa costruzione di un percorso esistenziale significativo, sarebbero stati necessari una sensibilità artistica e un genio critico che allora, e ora, non erano e non sono moneta corrente tra chi, quotidianamente e professionalmente, si occupa di mediare tra le novità editoriali e il pubblico dei lettori comuni. Sono, però, da menzionare due eccezioni: una per spirito sciovinistico e l’altra per la portata delle conseguenze. Ad appena un mese dall’uscita dello Swann, l’italiano Lucio D’ambra pubblica sulla “Rassegna contemporanea” un articolo incondizionatamente elogiativo, paragona Proust a Stendhal e lo indica come lo scrittore del futuro. Dalla corrispondenza di Proust non risulta che D’ambra lo conoscesse o che qualche amico dello scrittore francese potesse aver “imbeccato” lo scrittore-giornalista italiano, e quella recensione, così preveggente, rimane una specie di riconfortante “miracolo letterario”. In patria, invece, chi si accorge subito dell’incommensurabile valore letterario dell’opera che quel primo volume faceva balenare, è Jacques Rivière, giovane critico che faceva capo al gruppo NRF. Ne nascerà una corrispondenza e un’intesa che avrà conseguenze di non poco conto nella biografia di Proust e nella vicenda filologica, la vita del romanzo.
“A lungo, mi sono coricato di buonora”. Il romanzo inizia con questa spudorata menzogna, che è anche un sorriso amorevole e, al contempo, canzonatorio nei confronti dell’inesausto tentativo della madre di mandarlo a letto presto. È la frase – provata e corretta più volte, come attestano i brogliacci dello scrittore, tanto per ribadire come la disinvolta naturalità dello stile proustiano sia il frutto di disciplina e di estenuante lavoro scrittorio – è la frase che segna l’assunzione di un punto di vista, quello del personaggio-narrante, diverso da quello dell’autore che gli fornisce i materiali biografici, ma non il suo punto di vista. Il romanzo non svilupperà una vicenda della quale l’autore ha già scoperto il senso. Il personaggio-narrante, e con lui il lettore, dovranno compiere un percorso, dovranno fraintendere, sbagliare, avviarsi su false piste, prima che la Verità, il senso di una vita, illumini retrospettivamente il significato del percorso. Non è l’autore, dall’alto di una Verità acquisita, a parlare (solo saltuariamente e quasi mordendosi la lingua s’intrufolerà nel racconto), è il personaggio-narrante, confitto alla stessa altezza dello spazio-tempo narrato, il titolare della parola romanzesca. Così di fronte alla generale incomprensione dello Swann, che per la maggior parte dei lettori non si capiva dove “volesse andare a parare”, lo stesso Proust, nella corrispondenza e nelle interviste, rivendicava il carattere “dogmatico” dell’opera, che solo lo svelamento finale, l’ultimo capitolo (scritto, come si ricorderà, immediatamente dopo il primo), avrebbe reso evidente. In fondo sarebbe bastato anticipare quelle conclusioni per rendere tutto più chiaro e “godibile”, ma in questo caso la Verità profonda dell’opera sarebbe stata offerta già bell’e pronta, il lettore non avrebbe dovuto scoprirla da sé e dentro di sé, l’effetto estetico e filosofico, cui l’opera proustiana mirava, sarebbe svanito.
Le fantasticherie dell’uomo in dormiveglia pongono immediatamente il narratore in una situazione liminare, sulla soglia tra la realtà e l’infinito dei mondi possibili. Lentamente, dalla galassia fluttuante delle virtualità narrative emergono dal buio, dall’indefinito, dal caos i corpi astrali che la scrittura, l’affabulazione narrativa, il logos illuminano, definiscono, ordinano. L’uomo in dormiveglia, ulteriore diffrazione tra l’autore e il narratore, sul crinale tra luce e buio, ordine e caos, perdita e recupero passa “la maggior parte della notte a ricordare la nostra vita d’un tempo a Combray, in casa della prozia, oppure a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia, in altri luoghi ancora, a ricordare i posti, le persone che vi avevo conosciute, quel che di loro avevo visto, quello che me ne avevano raccontato”. Così come, nella realtà, la materia narrativa si era lentamente distaccata, illuminata, definita e ordinata dal primigenio impulso saggistico, ora, nel romanzo, essa si distacca, s’illumina, si definisce e si ordina dal caotico universo dei mondi possibili. Il passaggio dalla realtà biografica alla scrittura è guidato dal lievito della trasfigurazione letteraria che ne serba traccia – come l’ordine mantiene in sé le tracce del caos, la veglia del sonno, la narrazione del saggio, ecc. – e ne impedisce la perdita, l’insignificanza e la nullificazione.
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