CriticaLibera: Il "Quijote" di Pierre Menard: Cervantes secondo Borges




In un precedente intervento ho segnalato due commenti al Don Quijote di Miguel de Cervantes, quello di Miguel de Unamuno e quello, filosofico, di José Ortega y Gasset.
Procedendo sulla stessa linea vorrei qui parlare di un racconto di Jorge Luis Borges, molto celebre, che Leonardo Sciascia ha definito come un apologo del commento unamuniano.


Si tratta del Pierre Menard, autor del Quijote, raccolto in Ficciones nel 1944. Il testo fu immediatamente tradotto in italiano da Carlo Fruttero per Einaudi. Tuttavia, la traduzione di Fruttero non è delle migliori, quindi consiglio ai non ispanisti di fare riferimento all'edizione Adelphi a cura di Antonio Melis. Io farò riferimento all'edizione spagnola più comune, quella tascabile di Alianza Editorial.

Pierre Menard è uno scrittore francese che ha scritto una serie testi di poca importanza, ma che è anche autore di un'opera sotterranea e inconclusa, il Don Quijote appunto. Borges si premura di precisare che Menard
"non voleva scrivere un altro Quijote -che sarebbe stato facile- ma il Quijote. Inutile aggiungere che non affrontò mai una trascrizione meccanica dell'originale; non voleva copiarlo. La sua ammirabile ambizione era produrre delle pagine che coincidessero -parola per parola e linea per linea- con quelle di Miguel de Cervantes" (47; traduzione mia).
Borges, da buon filologo, spulcia tra gli appunti del Menard e trova una frase che dà la misura dell'impresa dello scrittore:
"Scrivere il Quijote all'inizio del XVII secolo era un'impresa ragionevole, necessaria, forse inevitabile; all'inizio del XX, è quasi impossibile" (50; traduzione mia).
Nonostante questo ed altri ostacoli che incontrerà, Menard riuscirà a scrivere il Don Quijote, seppur in frammenti. Ma il Quijote scritto nel XX secolo assume una sottigliezza molto più acuta di quello scritto tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo. Ed è qui che sta la grandezza di Borges.

Per dimostrare il suo punto di vista critico sul romanzo di Menard, lo scrittore argentino procede con una dimostrazione pratica, preceduta dalla seguente considerazione:
"Il testo di Cervantes e quello di Menard sono verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente più ricco. (Più ambiguo, diranno i suoi detrattori; ma l'ambiguità è ricchezza)" (52; traduzione mia).
Borges cita come esempio la seguente frase tratta dal Don Quijote di Cervantes definendola un semplice elogio retorico della storia:
"(...) la verità, la cui madre è la storia, imitatrice del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e avviso del presente, sintomo del futuro" (id.; traduzione mia).
Ma ancora più interessante è che la mette a confronto con la seguente frase tratta dal Don Quijote di Pierre Menard:
"(...) la verità, la cui madre è la storia, imitatrice del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e avviso del presente, sintomo del futuro" (53; traduzione mia).
Questa frase, letta, ma soprattutto scritta, all'inizio del XX secolo assume un significato completamente diverso. Menard definisce la storia come l'origine della verità e non come la sua indagine. Quindi, segnala Borges, per lo scrittore francese "la verità storica non è quello che successe; è quello che giudichiamo che successe" (id.: traduzione mia).
Ecco davanti agli occhi dell'attento lettore borgesiano, desocupado per eccellenza, tutta la grandezza del romanzo di Cervantes.
Ripensando a Sciascia, non può non sfuggire che lo scrittore di Racalmuto inserì questo racconto nel suo Affaire Moro, quando ha dovuto spiegare perché stava per scrivere (e non riscrivere) la storia del rapimento di Aldo Moro.

Alessio Piras