Qual è la differenza tra le presentazioni di libri in Italia e in Inghilterra (paese dove attualmente vivo)? Per il poco che ho potuto saggiare finora, direi che più o meno è la stessa che passa tra cattolicesimo e protestantesimo. Per carità, non vorrei far aggrottare la fronte a teologi o credenti: il mio paragone è puramente formale. Come il prete funge da intermediario tra la comunità dei credenti e Dio, il critico che fisicamente presenta un libro si frappone tra il pubblico e lo scrittore. Questo in Italia. In Inghilterra, il pubblico e lo scrittore dialogano direttamente, come il fedele protestante con Dio.
Ma quali sono i dati su cui mi sto basando? Per quanto riguarda l’Inghilterra, una presentazione a cui ho assistito di recente e di cui vi parlerò dopo. Per quanto riguarda l’Italia, la quasi totalità degli inviti a presentazioni che mi arrivano via e-mail e che prevedono la presenza di almeno un critico, o comunque persona altra dall’autore che lo presenti. E anche alla mia esperienza diretta: un anno fa, dovendo presentare il mio libro di poesie, ero all’affannosa ricerca di qualcuno che mi introducesse e che dialogasse con me; altrimenti, addio presentazione. Allo stesso modo, a mia volta, ho presentato libri di altri esordienti.
Questo trend, tuttavia, non si limita ai tanti signor nessuno tra i quali mi annovero, e per i quali la presenza di un “garante” può essere utile, se non indispensabile. Al contrario, si estende a tutti i livelli con una crescita direttamente proporzionale: più lo scrittore è noto, più numerosi saranno coloro che, nello stesso evento, lo introdurranno (filtreranno). In principio è giusto che qualcuno introduca, dia riferimenti e cerchi di sollevare interrogativi, così che il pubblico (spesso non ancora lettore del libro o dell’autore in questione) possa orientarsi.
In pratica, però, temo che questo possa ulteriormente aumentare il gap tra pubblico e autore, apparentando - vizio italiano tra i tanti - la letteratura come qualcosa di sacro, che non può essere assunto per via diretta. Serve un intermediario, meglio se competente, e c’è da sperare che abbia anche abbastanza sensibilità per accordarsi a quella dell’autore e abbastanza intelligenza da non annoiare il pubblico.
Insomma, una quantità di variabili che conduce, spesso, a una diserzione. Ovviamente, ci sono altri fattori da tenere da conto: efficacia o meno del marketing, fama più o meno consolidata dell’autore, appeal del genere di appartenenza del libro, raggiungibilità del luogo (non sto scherzando), e così via. Verissimo. È però innegabile che il format delle presentazioni un suo peso ce l’abbia.
Ora cerco di dare un po’ di concretezza a quanto detto fin qui. Giovedì 8 giugno, il poeta contemporaneo inglese Andrew Motion (poeta “laureato” dal 1999 al 2009, con all’attivo otto raccolte per la casa editrice Faber & Faber, fondata da un tale di nome T. S. Eliot) ha presentato a Nottingham il suo nuovo romanzo Silver (una specie di sequel dell’Isola del tesoro di Stevenson) e letto alcune sue poesie. Biglietti a pagamento: da 6 a 11 sterline l’uno. Sala: gremita, 40-50 persone. D’accordo, è un poeta conosciuto. D’accordo, presenta un romanzo e non una raccolta di versi. Però immaginare qualcosa di analogo in Italia è arduo. Non è insolito avere sale gremite in festival che coinvolgono un grande numero di autori affermati (come mostrano le cronache degli eventi qui su Criticaletteraria), ma succede lo stesso con presentazioni singole? Non ho mai assistito alla presentazione di un romanzo da parte di un poeta italiano noto. Però a Pavia ho assistito a incontri con poeti del calibro di De Angelis, Anedda e Pusterla, e mi è sembrato che ci fosse molto meno pubblico. E che interagisse assai meno.
Nella sua presentazione, Motion era da solo. In piedi davanti a un leggio, un bicchiere d’acqua sul tavolino di fianco. Non si è mai seduto, sul palco non c’era nessuna sedia. Ha cominciato a parlare a braccio del suo romanzo, a leggerne estratti, a lasciare entrare il pubblico nel suo vissuto privato a volte doloroso. Lo ha fatto con naturalezza, pudore e umanità. Ha letto dei versi. Ha chiesto se c’erano domande. C’erano, tanto che a fine presentazione ne sarebbero senz’altro arrivate altre. Chi chiede da cosa nasce la poesia. Chi chiede consigli su come scriverla. Chi vuole saperne di più del rapporto tra il poeta e un padre non proprio amante dei libri. Domande semplici, ma l’esperienza è stata toccante.
Andrew Motion |
Siamo sicuri che sia solo perché gli inglesi leggono di più? Credo piuttosto c’entri il fatto che l’autore venga percepito e apprezzato, che diventi veicolo delle proprie fatiche letterarie. Può non essere bello. Può essere triste, per un amante della letteratura, che non sia la qualità intrinseca dell’opera il primo, se non unico, motivo. Però è un dato di fatto che ho esperito, e non credo di essere l’unico. Per esempio mi ricordo che l’affabilità, l’intelligenza e l’umiltà di Pusterla mi indussero ad acquistare un suo libro, anni fa.
Il punto è che spesso il modello frontale, accademico nella forma ma spesso non nella sostanza al quale siamo abituati riduce sia l’espressività dell’autore sia l’interazione del pubblico. L’autore è legato all’inquadramento critico che gli viene cucito addosso, alle domande specifiche che gli sono poste. Oppure divaga in discorsi che interessano solo lui, si compiace, il pubblico si allontana. È difficile che un autore si compiaccia in egual misura se nessuno lo elogia o lo accosta per vie traverse a Montale (per dire). E se anche lo facesse, il pubblico non si mostrerebbe tollerante quanto il relatore.
Dopo venti minuti di introduzione, venti di dialogo specialistico o pretenzioso, cinque minuti di lettura dell’opera (evviva! ma non sarà tardi, ormai? perché non cominciare da quella?), rimane poco tempo per le domande del pubblico. Il tempo è poco, ma a volte è infinito perché al “… ci sono delle domande?” tutti restano muti, gli sguardi evasivi si moltiplicano. Non hanno proprio niente da chiedere? Eppure, forse, dopo le alte disquisizioni di prima, alcuni potrebbero sentirsi intimoriti. Intimoriti che le loro domande siano banali, banali come quelle fatte a Motion. Ma lì era la cosa più naturale del mondo. Così, se il pubblico italiano ha delle curiosità, se le terrà per sé. Probabilmente non comprerà il libro. E probabilmente l’autore penserà che il suo pubblico non lo merita, non lo capisce.
Cominciamo allora a sperimentare non solo nella letteratura, ma anche nel modo di proporla, ripensandone i contesti, rimettendoci in discussione - e che non sia una discussione che riguarda pochi.
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