di Yasmina Reza
Traduzione di Laura Frausin Guarino, Ena Marchi
Piccola Biblioteca Adelphi
2011, 5ª ediz., pp. 91
“Ecco la nostra dichiarazione…Voi
naturalmente farete la vostra”.
Inizia così l’opera teatrale,“ Le dieu du carnage” di Yasmina Reza (da
cui è stato tratto un film di Roman Polański): con una sorta di proposta
conciliativa, carica di buon senso e buone maniere.
La dichiarazione/conciliazione
riguarda una lite banale scoppiata ai giardinetti parigini tra i rispettivi
figli dei protagonisti, gli Houllié, padroni di casa (unica location dell’opera), e i Reille; due
coppie di borghesi “dai quaranta ai cinquant’anni”.
Il tentativo, tra il patetico e
il drammatico, si sviluppa come un articolato e sottile psicodramma dagli esiti
imprevedibili, capace di reggere una potente tensione narrativa, le cui
increspature alle norme di “civile convivenza” (“per fortuna”, dirà Véronique
Houillé, “esiste ancora la civile convivenza”) non tarderanno ad arrivare,
opponendosi alla pacifica e controllata risoluzione di uno scontro che a volte
sembra prossimo a esplodere, altre volte si scioglie in un civile compromesso e
altre volte ancora, specie nel prosieguo della storia, palese e violento.
Il primo scoglio è, come normale
che sia, quello del linguaggio, prima spia di un malcelato astio che si
vorrebbe, almeno nelle intenzioni, evitare.
Per questo “armato di bastone” (bastone con cui il ragazzino Ferdinand Reille ha
colpito Bruno Houillé nella lite oggetto dell’analisi) si trasforma
immediatamente in “munito di bastone”,
che sembra a tutti i genitori più adatto all’“atmosfera compunta, cordiale e
tollerante”, vero punto zero del psicodramma.
Il secondo scoglio, elemento
chiave di tutta l’opera, è l’incomunicabilità.
Incomunicabilità prima accennata e
poi dominante; prima interna alla coppia stessa, per poi coinvolgere tutti i
protagonisti, tanto da far constatare al più rassegnato e nichilista dei
protagonisti, Michel Rouillé, che: “siamo sempre soli! Dappertutto!”.
Così sarà tra i coniugi Houllié,
a partire dai primi cenni della conversazione (il bambino che non voleva
denunciare chi era stato, per la mamma Véronique esprime una forma di coraggio,
per il padre invece solo paura di non dover essere considerato uno spione) fino
ad arrivare ai problemi di coppia, regressi e taciuti.
“La verità è che sono del tutto privo di
autocontrollo, sono uno che va fuori di testa”, dice Michel rimproverando alla
moglie Véronique di non esserlo mai, “perfettina” ed equilibrata, almeno in apparenza
(una volta criticata, infatti, attaccherà sarcasticamente: “vivo con un uomo
che non vuole cambiare niente, che non si entusiasma per niente”), impegnata
politicamente, nonché aperta e disponibile con il “prossimo”, ma molto meno con
il marito.
E così sarà anche tra i coniugi
Reille: se Annette ammette che il figlio non si rende conto di aver “sfigurato”
un compagno, Alain non riconosce nessun “sfiguramento” ma un semplice problema
ai denti e anzi suggerisce una soluzione diretta tra gli interessati, “tra
uomini” (anche in questo subito contraddetto dalla moglie).
Anche loro con problemi di coppia
che, tra distanze e assenze, progressivamente con l’avanzare del racconto si
paleseranno al lettore, dipanandosi dall’ombra incerta del detto e non detto
alla limpidezza cruda della violenza verbale, grazie a una brillante e quasi
scolastica tecnica narrativa.
Avvocato spregiudicato e
impegnato a difendere – con continue telefonate che interrompono
fastidiosamente la conversazione – un’azienda farmaceutica accusata di
commercializzare un prodotto con gravi effetti collaterali (anche questo sarà
un motivo di scontro, perché casualmente Michel Houllié scopre che sua madre
stava per utilizzare proprio il farmaco in questione), Alain, tra i quattro
protagonisti, è il più brusco, vero e proprio sostenitore del “dio del massacro”
(non a caso titolo dell’opera) cioè dell’esaltazione della vita sulla
razionalità, e, in quanto incapace al compromesso, anche il più sincero.
E se, analizzando i motivi della
lite dei rispettivi figli, emerge inaspettatamente una sorta di complicità tra
i due padri, qualcosa subito dopo si spezza, ritornando inevitabile l’asprezza
dello scontro (Alain ironizza sul lavoro che svolge Michel, “venditore di
pentole, maniglie e dispositivi per gabinetti”), in un’alternanza di giudizi e
sensazioni, di approvazione e di ripulsa, di compromessi e contestazioni, all’interno
però di un unico complesso processo psicologico, paradigmatico dei rapporti umani.
Ben presto emergono dei contrasti
anche tra le due madri (“se decidiamo di dare una lezione a nostro figlio, lo
facciamo a modo nostro e senza dover rendere conto a nessuno”), in particolare dopo
un malessere, con vomito incluso, dovuto probabilmente al nervosismo, ma di cui
viene sommessamente (quindi sempre molto civilmente) ventilata la possibilità causale
di un dolce preparato dalla padrona di casa che ovviamente negherà con un certo
fastidio (“no, non può essere stato il clafoutis”).
E quando si cerca un riconoscimento
delle proprie ragioni, come fa Annette quando ammette che possano esserci stati
delle motivazioni alla base del gesto di violenza del figlio, allora cadono definitivamente
le maschere della benevolenza, anche da parte di chi, come Véronique,
rappresenta la voce della civiltà e della correttezza:
“Comportarsi in modo civile non
serve a niente. La buona creanza è un’idiozia che ci rammollisce e ci rende
deboli…”.
L’attacco a Véronique, (“lei
ragiona troppo”, si lamenta Alain), non tarda a venire ed è un attacco autentico
e spietato del cinico Alain:
“davvero pensa che ci si
interessi ad altro che a se stessi? Vorremmo tutti credere a un possibile
cambiamento. Di cui saremmo gli artefici e che non sarebbe legato al nostro
personale vantaggio. Ma le pare possibile? Ci sono uomini indolenti, sono fatti
così, altri che non vogliono perdere un solo attimo di tempo, e si danno da
fare, che differenza c’è? Gli uomini si agitano fino a quando non muoiono […].
Ognuno si salva come può”.
Ognuno dei personaggi ha
chiaramente una categorizzazione freudiana, una delle due “topiche” che
spiegherebbero la psiche umana (l’altra è la differenziazione tra Inconscio,
Preconscio, Conscio).
Alain è il personaggio che
rappresenta magistralmente l’Es o Id:
“La morale ci prescrive di
dominare i nostri impulsi ma qualche volta è giusto non dominarli” o ancora: “Le
ricordo che all’origine il diritto è la forza”.
Frasi rivolte non a caso a
Véronique, il Super-Io o Super-Ego, la
forza razionale, il controllo delle passioni, la rappresentante dei diritti
civili e dei comportamenti socialmente necessari.
Annette sembra invece più l’Io o Ego che tenta una mediazione
logica (“secondo me ci sono dei torti da entrambe le parti”) e non è un caso
che proprio questo tentativo farà esplodere Véronique (“Ecco qua: basta un po’
di alcol e appare il vero volto. Dov’è finita la donna amabile e riservata,
dalle maniere gentili…”) che con furore inaspettato caccia gli ospiti fuori di
casa, nonostante anche il marito appare irritato da questo comportamento.
Quest’ultimo, Michel, invece sembra
essere la voce della rassegnazione e del pessimismo, che assiste all’impietosa
lotta tra queste istanze che dominano la psiche umana.
Diceva Tolstoj (e non solo lui):
“Tout comprende c’est tout pardonner”.
Ebbene per Yasmina Reza l’essere
umano non perdona perché non sa comprendere, ma cerca soltanto – egoisticamente
– di “salvarsi come può”.
E mentre tutto prelude a uno
scoppio finale, invece ecco che la tensione si scioglie ancora una volta con
una telefonata di uno dei figli di Véronique, che preoccupato per un evento
quasi secondario (l’abbandono di un criceto) sarà tranquillizzato dalla voce
rassicurante della madre.
E tutta la tensione precedente, i
dissapori e i contrasti (tutto!) sembra quasi non essere mai avvenuto, in
un’armonia tanto falsa quanto irreale.
Insomma un’opera teatrale che è un
mini trattato psicanalitico, vestito da leggerezza teatrale, quasi pirandelliano:
corrosivo, cinico, direi “psicologicamente scorretto”, dove anche i buoni
sentimenti e la “perfezione” morale sono messi alla prova demolitrice
dell’insensatezza del vivere.
Giuseppe Savarino