di Nicola Fano
Donzelli Editore, Roma 2012
pp. 134
€ 16
Il personaggio di Arlecchino, a partire dalla sua nascita durante la fioritura della Commedia dell'arte, resta amatissimo ricettacolo di bastonate - date e ricevute senza un lamento - fino al suo progressivo svuotamento nei secoli, alla sua risemantizzazione e al suo reimpiego artistico, fino a Picasso. Da queste considerazioni muove l'ultimo libro di Nicola Fano, ricordato dai più come esperto storico del teatro, ma anche grande scrittore, di una penna saggistica piacevolissima, priva di accademismo e di ridondanza stilistica.
Come nel suo Ferribotte e Mefistofele, anche qui è difficile ricondurre il libro a un genere particolare: parlerei piuttosto di un intreccio di generi e di conoscenze, che attestano la vittoria di un'interdisciplinarietà consapevole. Si rompono le iper-specializzazioni che chiudono i singoli contributi in compartimenti stagni, per privilegiare un'apertura non superficiale, né d'altro lato troppo specifica. Direi, piuttosto, un nuovo sguardo trasversale che taglia di sbieco, senza fissarsi su singoli dettagli né pretendere visioni d'insieme. Non solo storia del teatro (la nascita della figura di Arlecchino e la sua fortuna sul palco), non solo arte (l'itinerario della figura di Arlecchino in pittura, in particolare nella produzione pittorica di Picasso), ma anche una radicata contestualizzazione letteraria (gli agganci all'Amleto di Shakespeare) e storica, con riferimenti alla sociologia e all'antropologia culturale.
Così si spiega meglio, ad esempio, perché l'Arlecchino protagonista delle opere di Picasso vada via via svuotandosi del suo significato, fino a morire con l'ultima prova nel 1936, a un passo dal secondo conflitto mondiale. Perché, in fondo, dice Fano, la «capacità catartica di assumere su di sé le colpe del mondo» (p. 32) non è più possibile davanti a un simile esempio di distruzione (e nascerà, infatti, la più angosciante e completamente disincantata serie di metafore «facili, dirette» di Guernica):
A che serve un simbolo comico nel Novecento? A che serve una risata nel pieno di una stagione autodistruttiva, con le sue guerre, le sue rivoluzioni fallite, i suoi tracolli economici? L'Arlecchino seduto di Picasso questa domanda non se la fa nemmeno: la evoca figurativamente grazie alla perizia del pittore.
E nella mancata finitezza dell'opera, nella tristezza del viso di Arlecchino, Fano rintraccia quasi una anticipazione di quel Novecento che presto avrebbe distrutto le illusioni dell'uomo moderno.
Gloria M. Ghioni