di Caterina
Davinio
Puntoacapo editrice, Novi Ligure (AL), 2012,
pp. 159
€ 16
Puntoacapo editrice, Novi Ligure (AL), 2012,
pp. 159
€ 16
Di
Caterina Davinio ho già scritto qualche tempo fa a proposito d’un suo smilzo
libretto di liriche pubblicato da Campanotto l’anno scorso. Torno a parlarne
perché merita e perché ce ne offre l’occasione questa nuova pubblicazione, un
po’ più ampia, che non potrebbe meglio essere presentata che dalle parole dell’autrice:
“Di certe malattie del corpo e dell’anima
forse è meglio non parlare, dissimulare, non turbare la suscettibilità di chi
al mondo riesce a dipartire con tanta sicurezza il bene e il male (…). Infatti,
questo libro è rimasto inedito, ed oserei segreto, per più di un ventennio,
raccoglie poesie che risalgono a una ormai remota e turbolenta gioventù,
scritte tra i diciassette e i trentadue anni. I componimenti sono disposti in
successione non cronologica.” Sono
dunque poesie giovanili nate nel fuoco di un’esperienza esistenziale estrema:
la tossicodipendenza.
Rispetto
all’opera di cui abbiamo già parlato a suo tempo, Il libro dell’oppio, scritto
prima, offre elementi anticipatori e attesta la persistenza di un’originale
visione del mondo che ha trovato espressione in un’elaborazione stilistica
sostanzialmente coerente. In queste poesie giovanili il dettato poetico è più
immediato, più direttamente comunicativo (e non mancano, vivaddio!, ingenuità
adolescenziali: ogni buonlavoro o capolavoro ha opacità irrisolte che lo
rendono più credibile), più rispondente all’esigenza esistenziale che anela all’espressione,
quasi che se ne possa cogliere in fieri
l’insorgenza di certi temi e di certe costanti stilistiche, in più queste
poesie offrono squarci lirici di struggente e indimenticabile bellezza, oltre a
temi e soluzioni stilistiche più specifiche.
Tra
le costanti che legano le due raccolte ad una stessa visione del mondo, la più
evidente è la capacità di Davinio di proporre inediti ribaltamenti di
prospettiva (nella recensione a Fenomenologie
seriali ne parlavo, non a caso, possiamo dire ora, a proposito della
sezione dedicata alla cocaina): marciapiedi che diventano cieli; uscite di
sicurezza che diventano trappole; improvvisi e illogici passaggi dell’io lirico
dal genere femminile a quello maschile e viceversa; il demone che è talvolta la
tossicodipendenza e talvolta la misera lucidità della vita comune. Numerosi altri
sono i ribaltamenti proposti dei quali il lettore potrà sorprendersi e scoprire
da sé. Altra costante tra le due raccolte, qui meno evidente e strutturante, è
la sinestesia, il guardare al mondo non in base al disegno definito dall’intelligenza,
bensì in base alla percezione dei colori (Davinio
è anche artista figurativa), così una pozzanghera può apparire “tra sforbiciate d’azzurro/e verde
raggomitolato nelle aiuole”. E questa
raccolta anticipa anche quella tensione consapevolmente ossimorica che si era
già rilevata nelle poesie più mature. “Meretricio
e santità”, “stelle e sterpi”: di ossimori leopardiani parla, nella breve
prefazione, Mauro Ferrari confermando e rilevando anche lui quella traccia di
disperata vitalità che si strenua a fermare l’istante prima che accada e si
annulli nella nostalgia.
Di
nuovo, o comunque di più specifico, in questa raccolta c’è un personalissimo
trattamento del tempo (e non è casuale che la raccolta si chiuda con la
ripetizione della parola tempo in
allitterazione con tanto). In queste
poesie il tempo è una duplice catastrofe: è la certificazione irremovibile e insoffrimibile
della finitezza dei mortali e l’insopportabile reclusione nella meschinità del
quotidiano. La droga offre una via d’uscita dalle doppie sbarre, dalla doppia
oppressione del tempo, diventa “arpeggio
dell’infinito”, “un Dio/ a spasso/nelle
vene del corpo”, e a coloro che sanno la differenza tra bene e male, che
sanno vivere in beatitudine la loro porzione di tempo si può allora domandare “Vi fa male/il mio sporco infinito?”.
Davinio non offre consolazioni, non abiura una “gioventù remota e turbolenta”: semmai passa dalla droga alla poesia
senza però indicare quest’ultima come strumento di salvezza. Non fa della
poesia l’approdo all’eventuale “bene pulito finito”. Fissata così la duplice
catastrofe, si può allora gustare in tutta la sua bellezza un ritrattino di Jimmy
Hendrix intitolato Hey babe! New Rising
Sun
Ti
arrampichi
sulla scala
degli
accordi
in combutta
con un
Dio.
Negligente
svista
del tempo.
Ma il tempo meschino della vita comune, con
il ribaltamento peculiare della poesia di Davinio, può anche porgere l’ultimo
appiglio alla disperata fame di vita, quando “vira al nero”, quando “si
raggomitola al cuore il sangue, pigrissimo/converge nello spessore di un
pugno/disertando membra marmoree”, allora, là fuori, fuori dal non-tempo
della droga, l’io lirico può essere avvinto ”con le imposte chiuse/come timide ciglia dietro le tende/[dal] vano cieco della finestra,/unico
appiglio,//sempre più lontano”.
Caterina
Davinio è una di quei rari poeti e poetesse a slacciare, in piena e polemica
consapevolezza, la poesia dall’abbraccio micidiale della filosofia, che tanti
danni di separatezza, d’incomunicabilità, di elitismo, ha prodotto sulla poesia
contemporanea. Quella di Davinio è una poesia dei sensi, del corpo, dell’emergenza
esistenziale che cerca e trova la via dell’espressione stilistica prima ancora
che semplicemente linguistica e concettuale. È la poesia di un Rimbaud sottratto
alla fuliggine della storia della letteratura e di tanti estenuati filosofi-poeti. È una
poesia che può fare a meno del filosofo: “Il
filosofo/si puntava assorto/l’indice sulla fronte/senza pensieri./Vedi
qualcosa, amico?/No, niente. È una poesia che si può opporre alla “inoculazione del silenzio”, la dose, la
droga, e che può costituirsi come “tarlo
che ha avuto il suo pasto/di incandescente eternità/ (…) ben contenta di
tarpare ali all’intelligenza”, senza però fornire un’astratta, definitiva e
consolatoria rielaborazione dell’esperienza esistenziale.
Paolo Mantioni
Paolo Mantioni