Si chiacchierava di libri, l’altro giorno, con alcuni amici. Bicchiere di vino, falò e afa opprimente. Si saltava pigramente dall’ultimo di Bukowsky, le novità letterarie del momento e Le cronache del ghiaccio e del fuoco, giusto per non tralasciare il fantasy. E poi, inevitabilmente, si arriva all’argomento preferito di tutti i lettori di ogni epoca: parlare di alcune pubblicazioni decisamente assurde che si trovano sugli scaffali Feltrinelli. Ci si trovava in terreno sicuro perché ci sono dei titoli che bisogna per forza odiare. Se li apprezzi perdi immediatamente la qualifica di “lettore”. Sguazzavo contenta, denigrando e deridendo alcune opere infami, fino a che non si è arrivati a colpire un preciso genere ed un preciso titolo:
- “I love shopping”. Come si fa a leggere una stupidaggine simile! Questo genere che parla solo di donne super glamour e frivole andrebbe abolito. Voglio dire, noi, come categoria femminile, che figura facciamo?-
Mi sono trovata ad annuire in maniera poco compromettente. Mi sembrava fuori luogo dire che sul mio comodino, proprio in quel preciso momento, insieme all’ultimo Bukowsky e a Calvino, c’era uno dei libri della serie “I love shopping”. Sarebbe stato oltraggioso affermare che l’avevo già anche letto. Degno di pubblica fustigazione ammettere che ho letto tutti i libri di Sophie Kinsella.
E che mi sono anche piaciuti.
Avrei fatto la figura del sedicente esperto di vini che ad una degustazione non si accorge di aver magnificato per un quarto d’ora del banale Tavernello in brick.
Certo: forse avrei potuto tentare di cavarmela con una dotta analisi sulla nascita del genere che si può definire “rosa” o, per quelli che vogliono darsi un certo tono, “chick lit”. Chick lit è l’abbreviazione di “chicken literature”, letteratura per pollastrelle, filone molto prolifico nel paesi di lingua anglosassone. Le protagoniste lavorano nel mondo dell’arte, della moda, dell’editoria o delle pubbliche relazioni e conducono una vita molto brillante fatta di flirt e grandi amori, uscite in locali alla moda e piccolo problemi sul lavoro che riescono sempre a risolvere con un miscuglio di charme, fortuna e intraprendenza. A questo punto, le lettrici avranno individuato il capostipite di questo filone letterario: Sex and the city di Candance Buschnell dal quale ha avuto origine la fortunatissima serie televisiva. Detto tra noi, il libro non è nulla di eccezionale.
Altri titoli famosi? Il diario di Bridget Jones di Helen Fielding. Chi non ha mai sentito nominare la rotondetta e pasticciona londinese e le sue traversie tra uomini sbagliati, troppo cibo, troppo alcol e troppe sigarette?
E poi, naturalmente, la serie I love shopping di Sophie Kinsella. Le vicissitudini di Becky Bloomwood, disastrosa giornalista finanziaria con una vera mania per lo shopping, attività per lei così appagante da essere paragonato ai migliori momenti del sesso.
Non avrei comunque ricostruito la mia credibilità di lettrice. Perché, diciamocelo, esistono tanti tabù nel campo della lettura. Per esempio, dire che il film tratto dal libro è meglio del libro stesso. Oppure ammettere di apprezzare, di tanto in tanto, una sana immersione nel mondo della letteratura disimpegnata.
Soprattutto con i tempi che corrono. Quasi tutti questi romanzi “chick” sono nati a fine anni ’90, inizio nuovo millennio, quando l’ottimismo era il profumo della vita. L’economia marciava bene, la disoccupazione non era l’uomo nero dietro il pezzo di carta e il “comprare, comprare e comprare” non era visto come un difetto. Oggi, nei bui tempi della nuova Depressione dobbiamo fare tutti dei sacrifici. Le spese sono ridotte, gli scintillanti marchi sono solo patina di riviste. I prestigiosi lavori retribuiti in maniera principesca e affascinanti broker che ti portano a cena in raffinati ristoranti sono opzioni realistiche quasi quanto la scarpetta di cristallo. Leggere libri “chick” non fa per noi, non è la letteratura di questo decennio. Dobbiamo essere seri, quadrati e preparati per uscire da questo cupo periodo.
Forse è vero. Non per tentare di riprendere punti, ma ammetto anch’io che questi libelli non sono ben scritti. Nessun costrutto elegante, parole semplici ed immediate, trame francamente stucchevoli. Forse noi donne non ci facciamo davvero una bella figura: siamo molto di più che compratrici compulsive o nevrotiche sovrappeso. Oltre alle gambe c’è di più.
O forse c’è anche altro. Forse siamo tanto seri, troppo quadrati tutto il giorno. Lavoriamo un numero incredibile di ore e all’uscita dall’ufficio non possiamo sempre andare a comprarci un paio di sandali. A casa non ci aspetta una raffinata cena di suhi e forse il letto è ancora da rifare. Perché non possiamo concedere un po’ di tregua al nostro cervello? Giusto ogni tanto, quando fa troppo caldo per ragionare e le vacanze sono davvero tanto lontane. E dopo aver meditato su Steinbech possiamo anche galleggiare pigramente sulle parole della Kinsella.
E quelli che non prendono nemmeno in considerazione l’idea di provare il disimpegno mentale un po’ mi fanno paura: non fa mai bene prendersi troppo sul serio, soprattutto sotto l’ombrellone.
P.S. Lo so dovrei limitare i danni a questo punto: ma mi sentivo troppo Carrie Bradshaw mentre scrivevo questo intervento.
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