CriticaLibera: Charles Dantzig, "La volgarità di Proust". Traduzione e adattamento di Paolo Mantioni


Pubblichiamo l’articolo di Charles Dantzig apparso su Magazine littéraire n. 519, maggio 2012, tradotto e adattato per il lettore italiano da Paolo Mantioni. Ringraziamo la rivista e l’autore per averci consentito di riprodurre l’articolo.




La volgarità di Proust


Nel periodo di moralismo svergognato che sta vivendo la letteratura, dove la maggior parte dei libri serve a dimostrare qualcosa, una causa, un assunto sociologico, un’idea, ho recentemente attaccato il realismo. Come prevedevo la cosa non è piaciuta a tutti. Certuni hanno replicato subdolamente, mostrando l’ipocrisia che può utilizzare la forza, altri più francamente, come Michel Crepu che ha risposto dallo stesso giornale. Rimproveravo alle Benevole, libro scritto male (Jonathan Littell, Einaudi, 2007, ed. orig. 2006), d’aver aperto le cateratte delle brutalità. Il suo grossolano esibizionismo mal celato dal vago trucco di riferirsi alle Eumenidi è sembrato dare un certificato letterario a una serie di bassezze fino ad allora riservate a romanzi senza pretese. Crepu mi risponde: «Jonathan Littell non è un grande scrittore, eppure ha scritto un libro straordinario. Capisca chi può.» Non sono sicuro che “capisca chi può” sia un modello di ragionamento, e ancor meno una prova di checchessia. «X è nullo e l’opera di X è geniale, capisca chi può.» Crepu va avanti su Céline: «Letto da vicino, in confronto alle merlettature céliniane, Proust ne esce quasi volgare.» Letto da vicino. Letto da lontano, non sarebbe lo stesso? E dall’alto? E di lato? Come che sia, ecco Proust volgare, asserzione inedita, audace, addirittura, direi. È vero che – attento! Tieniti, Dantzig, si tratta di Céline e tu osi attaccarlo! – Céline ha raffinatezze ben note, per esempio, quando riassume Proust dicendo: «Proust, è Sasà che incula Dédé». Ah, merlettature, lette da vicino, lette da lontano.


(…)


Perché opporre Proust a Céline giacché non era questo l’argomento del mio articolo?   


Crepu parla di Pantomima per un’altra volta (Einaudi, 1987, ed. orig. 1952), ma io, dal mio pulpito, parlavo dei pamphlets, dove la merlettatura  di Céline è all’opera, non credo d’aver bisogno di ricordare che oltre ad essere omofobo, era antisemita e se ne vantava. I céliniani cercano di nascondere l’esistenza di libri che, fino a prova contraria, Céline ha scritto e pubblicato; non ci sarebbe del resto bisogno di quei libri per far esplodere lo strano miscuglio di furfanteria, d’amore per la viltà, di rancore trionfante e d’odio per l’ideale che lo caratterizza. Ma se c’è una cosa sulla quale i céliniani non rispondono quando ne parlo, è la pretesa novità assoluta del suo stile. Non parlo di politica, dove Céline è facilmente espugnabile malgrado la loro attenzione nel riprendere la sua patetica argomentazione: «Non avete capito niente! Che sarà mai, quando attaccavo i perseguitati mettendomi dalla parte dei persecutori, in piena guerra mondiale, dalla parte dei nazis, scherzavo. Non avete nessun senso dell’umorismo! Chiudete la porta da questo lato e ricominciate da un bicchierino di bianchetto a casa nostra!» No, no, quando parlo di Céline parlo di letteratura; di retorica; di frasi; di stile; e tutto ciò che dico e al quale non si risponde perché non si può rispondere, è che c’è un’impostura nell’idea del Céline stilista inedito, visto che il suo sistema di punteggiatura e il suo preteso “stile emotivo” (secondo una sua espressione) è tutt’altro che inventato da lui come si vanta in Colloqui con il professor Y (Einaudi, 1971, ed. orig. 1955), ma lo ricava da Jules Laforgue. Non mi si risponde mai nemmeno quando dico che, con il suo talento comico innegabile, non sa fermarsi, e che la varietà dei suoi mezzi è molto limitata. Letterariamente, “Louis-Ferdinand Céline” sarebbe la perfetta traduzione dell’espressione inglese “one-trick poney”. Un cavallo che ha solo un numero. Lo fa bene, ma non fa che ripeterlo. E smettetela di parlarmi di vertigini di finezza. Céline è stato compreso e subito proprio per il suo stile rudimentale e fanfarone, ben adatto agli strepiti del tempo, guerre, invettive della stampa, appelli all’assassinio, ai quali però nessuno lo obbligava a conformarsi. Paul Valery l’ha fatto? I veri delicati come Valery o Proust non possono essere compresi subito. O Mallarmé che mi è stato opposto dallo stesso pulpito. Tutto ciò mi ha permesso di constatare che il populismo letterario che rilevavo domandandomi se non stessi esagerando è ben presente, pronto a mordere, e che i grandi scrittori sottili e complessi che avevano lentamente guadagnato una gloria che si sarebbe detta durevole, eh sì, possono cadere alla prima occasione.


Dal mio pulpito facevo di Céline solo un esempio accessorio. Capisco bene l’interesse a far virare una discussione sui pericoli del realismo in un caso Céline, ma non mi ci farò trascinare. Ogni generazione ha il suo realismo, lo ripeto, se in questo momento è così pericoloso è perché coincide con una reazione morale spaventosamente proporzionale alla crisi economica. Un populismo letterario, divina risorsa di scrittori ignorati, sogna di mettersi al servizio della vendetta. Se arrivano al potere ci sarà una carneficina di passerotti. Chiamo passerotti coloro che si preoccupano della forma dei libri. Vorrei aggiungere che il tappeto di catrame che sembra schiacciare in questo momento la letteratura contemporanea non è universale. Non tutti gli scrittori sono sociologi o moralisti. Se c’è dibattito, vuol dire che lo statuto estetico della letteratura non è così basso.