In questi ultimi tempi, dopo l'intervento di Simone Barillari di TQ e poi ripreso da Marco Cassini di Minimum Fax, in vari siti e blog di informazione letteraria, si è discusso appassionatamente del progetto di una Decrescita Editoriale (leggere qui, qui e anche qui).
Prima di affrontare il discorso, descrivendo il dibattito in corso e, infine, esprimere la nostra opinione ci pare giusto dare una sintetica definizione del concetto di Decrescita.
L'idea di Decrescita è salita di recente alla ribalta del dibattito economico, politico e sociale (e ora, come vediamo, anche culturale) in relazione alla questione della sostenibilità ambientale e sociale della crescita economica. Viene, cioè, messa in discussione l'inevitabilità di una "crescita economica illimitatata" (cioè il costante aumento del PIL), non più sostenibile per l'ecosistema terrestre e non più eticamente accettabile a causa della creazione di rapporti sociali mercificati ed alienanti.
Cosa c'entra tutto questo con l'editoria? Simone Barillari lo spiega in questo modo:
Da anni e anni, l’editoria italiana lamenta che si fanno troppi libri, e ne fa sempre di più. Li fa, soprattutto, abbassando in media gli standard qualitativi per poter raggiungere standard quantitativi sempre più alti con le stesse risorse – gli stessi uomini, gli stessi tempi, gli stessi budget, per pubblicare più libri dell’anno precedente. Si comprimono quei fondamentali tempi di lavorazione di ogni libro che separano l’acquisizione dalla pubblicazione, diminuiscono inesorabilmente le ore che ogni redattore può dedicare a un libro, si accorciano le scadenze – e non aumentano in modo congruo i compensi – per traduttori, revisori, correttori di bozze. Non meno che i tempi di lavorazione, si comprime in modo altrettanto inesorabile la durata della promozione di ogni libro, che è appena uscito ed è già incalzato dal successivo, diminuiscono le ore e i soldi che ogni ufficio stampa e ufficio marketing può dedicare a ogni uscita, così che sempre meno libri, non necessariamente i migliori, assorbono sempre più risorse, e sempre più libri, non necessariamente i peggiori, vengono abbandonati subito dopo l’uscita, durando in libreria meno tempo di quello che è stato necessario a scriverli. Negli ultimi due decenni il mercato ha imposto con darwiniana durezza di crescere per sopravvivere – “publish or perish”, per mutuare un’espressione diffusa tra i docenti dell’accademia americana – e ha contribuito a tutto questo, ne è stata causa ed effetto al tempo stesso, una mutazione del pubblico che legge, sia nella direzione di una sempre minor sensibilità alla cura editoriale dei libri, sia in quella di una sempre maggiore reattività a quella legge di mercato per cui un libro che vende subito venderà sempre di più e un libro che non vende subito rimarrà completamente invenduto.
Le opposizioni alla proposta di Barillari, di diminuire la quantità editoriale per aumentarne la qualità, possono essere riassunti nell'affermazione: "Per decrescere dovremmo decrescere tutti, non solo noi piccoli editori". Accettando, dunque, in questo modo, la dittatura del mercato che, invece, una proposta di Decrescita Editoriale nega.
L'intervento più qualificante e più acuto è stato, come dicevamo, quello di Marco Cassini. Sarebbe utile riproporre tutto l'articolo (che invitiamo i nostri lettori, ancora una volta, a leggere qui) ma ne proponiamo, per noi, la parte più significativa:
Abbiamo ceduto insomma, noi editori, al ricatto del mercato, abbiamo assecondato alcune sue richieste che se ci fermiamo a riflettere appena un istante riveleranno tutta la loro assurdità; abbiamo allentato la morsa del nostro codice deontologico e abbiamo finito col chiudere almeno un occhio quando ci guardiamo dentro (nello specchio dell’anima che è il nostro catalogo) e rischiamo adesso di non riconoscerci più, di non riconoscere più nella nostra proposta (magari non nel suo contenuto, che resta coerente, ma nel modo di veicolarlo, che però come sappiamo bene ne è parte integrante) qualcosa di coerente con quello che eravamo prima di cedere.
Si dirà: bisogna pur sopravvivere. Oppure: è la libreria, baby. O ancora: è tutta colpa del mercato. Ma non è vero, il mercato è fatto di lettori, e se sappiamo parlare ai nostri lettori uno a uno, alla fine avremo parlato anche al mercato. In fondo, lettori e mercato sono la stessa cosa, solo che paradossalmente agli uni sappiamo parlare (ma stiamo rischiando di dimenticare come farlo) e all’altro non sarebbe poi così necessario ma ci sforziamo continuamente di farlo.
Corriamo insomma il rischio di assomigliare a quei produttori di cattiva televisione che si dicono costretti a produrre programmi di così basso profilo per andare incontro ai gusti del pubblico mentre il pubblico (una porzione di pubblico) è molto più elevato di quella proposta, vorrebbe qualcosa di meglio, se solo ci fosse, e magari quando un raro prodotto di intrattenimento di qualità arriva in tv viene premiato. Ecco, quella porzione di pubblico spesso è già una quantità di lettori sufficiente, se siamo in grado di intercettarla, se sappiamo parlarle col cuore e con la qualità dei nostri prodotti e delle nostre idee che ci abbiamo messo dentro, e non con la lingua del mercato: una quantità che farebbe prosperare o quanto meno vivere dignitosamente le nostre case editrici.
Ecco. Cassini ha individuato esattamente il nocciolo del problema e della questione. Che riguarda aver ceduto alle "leggi" (leggi? di chi? chi le ha fatte? chi le ha approvate?) del mercato, avendo trasformato il libro in un prodotto commerciale e la cultura in un industria. Questo non vuol dire, ovviamente, nostalgia per i bei tempi andati e per l'editore puro che non aveva alcun interesse commerciale. L'interesse commerciale, è evidente, dev'essere presente, ma non deve essere condizionante nei confronti del progetto editoriale. Basterebbe tornare, per i piccoli e medi editori, alla definizione che essi si davano: casa editrice di "progetto". E quale sarebbe questo progetto oggi? Scopiazzare Mondadori? Purtroppo sono molto significative alcune risposte alla proposta di Barillari: il rapportarsi con le grandi case editrici vuol dire, infatti, aver perduto la coscienza del proprio progetto (culturale e commerciale). E non comprendere come tornando a parlare ai propri lettori (quei lettori che, una volta, si identificano in una precisa casa editrice perché portatrice di una visione del mondo, da Einaudi a Feltrinelli agli Editori Riuniti) vi saranno ritorni significativi anche commercialmente, e che i lettori (anche quelli italiani) sono migliori di quello che il Mercato ritiene.
Facciamo, dunque, nostro il nuovo codice deontologico per l'editoria che può essere riassunto nello slogan "di meno è meglio":
1. Impegnarsi insieme, e reciprocamente, in una campagna di "decrescita felice": produrre meno per produrre meglio, per dare tempo ai libri di vivere più a lungo, prima e dopo la pubblicazione;
2. Impegnarsi a non cadere nella tentazione delle scorciatoie, della semplificazione, dell'imitazione;
3. Impegnarsi a resistere alle storture del mercato e fare di tutto per cambiare le sue regole che non ci piacciono.
Per seguire queste regole, rassicuriamo tutti, non è necessario nessun governo bolscevico, ma buon senso e passione per una cultura non dominata dalle logiche del mercato e del profitto.
Che ne pensate? A voi la parola e iniziamo il dibattito.
Rodolfo Monacelli
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