Emanuele Trevi, "Qualcosa di scritto"

Qualcosa di scritto. 
La storia quasi vera di un incontro impossibile con Pier Paolo Pasolini
di Emanuele Trevi
 
Ponte alle Grazie, Milano, 2012 


pp. 246, € 16,80


         Alla parola [modernità] si connette in modo quasi automatico l’idea, sempre identica nell’infinità varietà degli stili e delle visioni individuali, che la letteratura sia una forma insostituibile di conoscenza del mondo. Non un repertorio di trame buone per il cinema, tantomeno un consumo destinato a un’illusoria elevazione «spirituale», ma una sfida, un oltraggio irrimediabile, l’ultimo giro destinato a conficcare le vite nel cuore stesso della verità”.


         È a partire da questa concezione forte di letteratura, comune e ampiamente condivisa fino a qualche decennio fa, ma ora, come giustamente denuncia lo stesso Emanuele Trevi poco più avanti, sempre più assediata e corrotta da pratiche e utilizzi deboli, conformisti e mercantili, che questo libro mi ispira un immediato consentimento, sebbene personalmente non consideri la letteratura una forma di conoscenza, bensì una condivisione di forme o di visioni del mondo che senza essa rimarrebbero mute e incomunicabili.


         Emanuele Trevi ha scritto e offerto al lettore un libro non comune, capace di spiazzare le aspettative basate sul concetto di genere letterario, di suscitare interrogativi più che risposte e di non consegnare una verità bell’e pronta, ma di indurre a cercarla. Un libro che non mira a promuovere un acritico e pacifico consentimento (su alcune delle idee esposte da Trevi non posso dire di concordare, così come alcune scelte formali o linguistiche mi lasciano perplesso) in virtù del bello scrivere, che pure all’autore non fa difetto e che, paradossalmente, potrebbe addirittura essere una lieve e più che perdonabile imperfezione. Emanuele Trevi scrive bene perché riesce a tenere a debita distanza alcuni dei vizi micidiali della scrittura che voglia dirsi letteraria: l’enfasi o, il suo contrario, l’ironia, la pedanteria o, il suo contrario, la faciloneria, l’eleganza algida o, il suo contrario, il patetico, ecc. Tutti vizi che, quando non siano gli elementi di forza di un testo, quando, cioè, non abbiano una funzione formale e comunicativa specifica e consapevolmente perseguita, rischiano di affossare ogni buona intenzione artistica. Sennonché il tono sobrio e pacato che riveste il testo (almeno fino alla terzultima riga) rischia talvolta di immergerne taluni contenuti incandescenti nell’acqua senza riuscire a farne sentire lo sfrigolio.


Il romanzo, così lo definiscono la copertina e il sottotitolo (Storia quasi vera…), è intessuto intrecciando tre fili principali. La rievocazione da parte dell’autore di un periodo della sua vita durante il quale la frequentazione del Fondo Pier Paolo Pasolini lo aveva messo a stretto contatto di gomito con la Pazza, ovvero la cantante, attrice, intima amica di P.P.P., Laura Betti, che dirigeva all’epoca il Fondo, scaricando su tutto ciò che le capitava a tiro, uomini e cose, la sua rabbiosa follia, e verso la quale l’autore, bersaglio privilegiato della furia della donna, nutre un sentimento di repulsione e attrazione. Questa parte del testo potrebbe essere considerata una parziale (parziale è il lasso di tempo preso in esame, ma anche il punto di vista scelto dall’autore) biografia della Pazza, scritta da un testimone oculare che rientra nella narrazione stessa per via marginale, dunque anche una parziale autobiografia. L’altro filo è l’analisi critica di Petrolio, il romanzo postumo e incompiuto di P.P.P. Analisi dettata non solo dall’occhiuta e competente lettura del testo, ma anche dall’opera cinematografica che lo ha immediatamente preceduto, Salò e le 120 giornate di Sodoma, sullo sfondo degli ultimi anni e mesi di vita dello scrittore bolognese. In questo modo, il testo di Trevi ci trasporta nel genere “critica letteraria”. Della migliore, per altro, quella che si realizza quando alla competenza, all’attenzione e all’ascolto del testo in esame si aggiunge il coinvolgimento personale: non solo, o non tanto, ciò che il testo è o dice, ma anche, e forse soprattutto, ciò che il testo è per me e dice a me, Lettore, prima ancora che critico letterario. Queste due parti, scandite in capitoli brevi e serrati, si alternano ad un ritmo sempre più incalzante, fino a quando entra in scena il terzo filo, ovvero la descrizione di un viaggio dell’autore da Atene a Eleusi, il luogo sacro dei Misteri Eleusini. Qui la puntualità spazio-temporale, descrizione dettagliata dei luoghi via via incontrati durante il tragitto, e la precisa determinazione cronologica (“tre di giugno duemilaundici” – è da notare tutte le altre date menzionate nel testo, a qualsiasi titolo, sono trascritte secondo la più consueta formula numerica) - assieme alla sempre più stringente rievocazione del rito d’iniziazione ai Misteri e di quanto ne hanno scritto gli autori greci e latini, ci conduce allo scioglimento, alla pagina finale, che è, però, un salto nel vuoto: l’autore ha avuto la visione? Quella stessa visione cui sembrava voler condurre l’opera incompiuta di P.P.P., di cui non sapremo mai se lo scrittore non ha fatto in tempo a scrivere o se il suo testo era destinato a portare il lettore fino ai bordi estremi dello scioglimento, senza, però, mostrarglielo. Qui il genere letterario è quello della letteratura di viaggio con venature esoteriche. Infine, il libro è corredato da note, bibliografia e illustrazioni relative al viaggio a Eleusi.


         Allora, perché romanzo? Perché la trama, la storia quasi vera narrata è ricostruibile, a libro finito, riannodando i fili sottili e non appariscenti che legano tra loro le singole parti, note, bibliografia e illustrazioni comprese. In un certo senso il romanzo lo deve riscrivere mentalmente il lettore, in una percezione sintetica e simultanea di ciò che non si poteva dare se non in forma analitica e discontinua. Al lettore spetta il compito di “vedere” il testo e di leggerne la trama sottotraccia che le singole porzioni di esso hanno disegnato. Sicché, se l’insulto preferito della Pazza all’autore è Zoccoletta melliflua ci si accorgerà che il cambio di genere (toccato anche a Moravia che Laura chiamava La Nonna) ha una precisa rispondenza nell’analisi di Petrolio; e che melliflua risponde all’atteggiamento nei confronti del mondo e della letteratura dell’autore (prima del viaggio a Eleusi?). Ancora, Petrolio è letto alla stregua di una scelta radicale di Pasolini, un percorso irreversibile, esistenziale e letterario, una scelta capace di annullare i confini tra vita e letteratura, un percorso iniziatico che conduca alla visione e per il quale occorre essere tutt’altro che una zoccoletta melliflua, occorre essere capaci di andare oltre, lasciando al di qua tutto ciò che impedisce alla vita di farsi letteratura e alla letteratura di farsi vita. È riannodando questi e numerosi altri fili sottotraccia, è considerando le singole porzioni del testo non solo come portatrici di un contenuto, di un loro specifico coefficiente concettuale, ma anche come significanti (in senso saussuriano) di un discorso altro, che l’astrazione e i contenuti concettuali delle parole da soli non possono trasmettere, ma che può essere mostrato solo come forma, e forma letteraria in particolare, che appare nella sua evidenza la trama, la Storia quasi vera…