Venivamo tutte per mare
di Julie Otsuka
traduzione di Silvia Pareschi
Bollati Boringhieri, Torino 2012
pp. 142
€ 13,00; e-book: € 4,99.
di Julie Otsuka
traduzione di Silvia Pareschi
Bollati Boringhieri, Torino 2012
pp. 142
€ 13,00; e-book: € 4,99.
La “trama” di questo
splendido “romanzo” (le virgolette vorrebbero segnalare che le due parole così
comuni vanno intese in un senso un po’ diverso dal solito – anche perché
diverse e insolite sono le soluzioni formali adottate dall’autrice) rievoca
l’immigrazione giapponese negli Stati Uniti durante gli anni Venti del secolo
scorso, la lenta e dolorosa reciproca assuefazione degli stranieri e degli
stanziali e l’improvvisa deportazione in massa dei primi a seguito del
proditorio attacco di Pearl Harbour (1941).
Dal punto di vista
letterario, Julie Otsuka offre soluzioni espressive se non inedite in assoluto,
certo molto originali e magistralmente padroneggiate, ben impastate all’importanza
dell’argomento storico, i cui temi, in realtà, si rivelano di bruciantissima e
eterna attualità.
Il punto di vista,
innanzitutto, è quello di un gruppo di donne che vanno a raggiungere i
rispettivi futuri mariti in America. Per la grammatica, un noi, per la
narratologia, un narratore intra-diegetico. Ma né la grammatica, né (forse
ancor meno) la narratologia possono dar ragione della plausibilità e della
forza comunicativa del punto di vista scelto dall’autrice. Chi parla, chi
racconta la storia (il titolare dell’enunciazione nella finzione romanzesca) è una
sorta di prisma indefinitivamente sfaccettato, del quale ogni spicchio, pur
mantenendo la sua virtuale individualità, è strettamente collegato all’insieme,
agli altri individui che lo compongono. La voce di ogni faccia del prisma è, al
contempo, individuale e collettiva: non si dà individuo senza collettivo e
collettivo senza individuo. Per la prosa di Otsuka, s’è parlato, a ragione, di
potere ipnotico. Ma è un potere, una capacità incantatoria, o più
semplicemente, un ritmo in grado di cullare e insieme tener desta l’attenzione
del lettore che ha precise rispondenze sul piano espressivo. Per il punto di
vista si tratta di una staffetta tra le diverse voci, tutte credibili, pur
nella diversità e nell’individualità d’ognuna. Può capitare, se non si ha
fretta e se si ha una certa propensione alla contemplazione, di incantarsi di
fronte a lunghe file di formiche: una specie d’individuo collettivo formato da singole
creature che sembrano continuamente rinnovarsi. Ecco, le voci che Otsuka
inanella e rinnova senza sosta, su un tema impegnativo e fornendo loro uno
spessore umano di non comune valore, possono ricordare quell’immagine. I
testimoni di quella staffetta sono grammaticali e retorici. L’uso della
congiunzione “e” dopo la virgola che chiude la porzione linguistica di una
delle voci e riapre immediatamente all’altra (con una leggera infrazione
grammaticale che è spesso il tocco di genio di uno scrittore) e l’ampio ricorso
all’anafora (spesso a prefisso zero, ossia senza l’effettiva ripetizione della
parola o del gruppo di parole che la determinano, quasi si trattasse di un
verso isometrico e isoritmico). Nel ricorso a questa figura, connessa ad una
sintassi fortemente paratattica, frasi brevi e tambureggianti, può nascere
talvolta la sensazione di un eccesso, come di chi, avendo trovato la formula
giusta, ci si crogiola un po’, arrivando ai limiti dell’affettazione (ma, come
mi è già capitato di scrivere, non si dà buonlavoro o capolavoro senza elementi
irrisolti o leggermente stridenti).
Seguendo ogni singolo
“personaggio” (le virgolette hanno la stessa funzione di cui sopra) uno
scrittore normale, seguendo i normali procedimenti narrativi (ma per fortuna la
letteratura, quella vera, è il regno dell’anormale) avrebbe potuto scrivere un
romanzo di mille e più pagine: Otsuka si limita a circa 150. Le singole vicende
sono appena accennate, evocate, spesso, con una frase in corsivo di cui il
lettore deve ricostruire il contesto, la situazione e le azioni dei personaggi
di contorno. Quegli impulsi narrativi, quel balenare di storie sono le 850
pagine che il lettore può scriversi da solo, pescando nella sua intelligenza e
sensibilità: attivandole, insomma.
E l’autrice? Che rapporto
letterario ha con la “trama”? E’ un narratore onnisciente? O si limita a un suo
punto di vista predeterminato? A volte, la narratologia, non aiuta. La voce
dell’autrice è mimetizzata in mezzo a quelle dei suoi “personaggi”, ne
introietta il tono, le porzioni di verità di cui ognuna è portatrice, ma fa
dire loro anche quello che non sanno, quella verità oggettiva o spirituale che
nasce dall’incontro tra lo scrittore e la scrittura e quell’altra verità che nasce
dall’incontro tra il testo e il lettore.
Insomma, Otsuka scrive un
“romanzo” che fa a meno del racconto, della diegesi (qua e là profilata, ma
quasi mai rappresentata): si immagini un’opera teatrale che non prevede scene
da rappresentare, dove una voce fuori campo, calda, sobria, empatica, accompagna
nella penombra del palcoscenico figure e situazioni appena delineate.
Ogni lettore sceglierà la
sua principale tra le diverse verità di questo romanzo - la verità sul
razzismo, o quella legata alla dinamica dei generi, l’autoidentificazione in
quanto donna o uomo e il rapporto con l’altro sesso – per parte mia scelgo
quella che rimanda alla sua bruciantissima ed eterna attualità. Cioè che lo spostamento di gruppi umani
definiti e circoscritti in quanto all’etnia, alla cultura, alla religione, ecc.
in terre e fra genti sconosciute ha molto a che fare con l’altrettanto attuale
e eterna dialettica tra individualità e collettività. E che il (tanto) male e
il (poco) bene che ciò porta con sé sono legati anche al lento, faticoso e
doloroso adattamento dell’individuo al mondo. E che spostamenti e adattamenti
sono all’origine stessa della specie umana, sono dati antropologici primordiali.
E che coloro che non li praticano più da una o più generazioni, gli stanziali,
per intenderci, guardano al migrante per lo più come un pericolo e solo raramente
come un’opportunità per rimettere in discussione la propria identità
individualità e collettiva. Il migrante serve allo stanziale non solo per il
suo benessere materiale, ma anche per il suo processo di auto-identificazione
che gli permette di crearsi un guscio di abitudini e auto-riconoscimenti capace
di indirizzarlo e proteggerlo nel suo rapporto con il mondo. Si tratta di un
processo eterno (e oggi quanto mai anche attuale) la cui consapevolezza più o
meno elitaria o espansa, solo in parte, solo lentamente e solo
provvisoriamente, ma sempre dolorosamente, contribuisce a migliorare i rapporti
degli uni (i migranti) con gli altri (gli stanziali) e di entrambi con il mondo
che li circonda.
Opere come questa di Julie
Otsuka contribuiscono a espandere quella consapevolezza non come farebbe un pur
benemerito studio sociologico, che infonde dall’alto o comunque dall’esterno i
suoi dati, bensì facendo cercare al lettore dentro di sé quella parte
bendisposta a migliorare le condizioni spirituali del proprio rapporto con se
stesso, con l’altro e con il mondo.