a cura di Gabriele Tanda
Michela Murgia dà il buon giorno al balcone di S'anatana e
susu
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Tutto è iniziato con la partita Italia-Germania e i due gol
di Balotelli: il primo tempo vissuto tra la gente di Gavoi, dove i più
sfegatati sono gli ex-emigrati che in Germania hanno subito sospetto e
pregiudizio, il secondo nei giardini di Binzadonnia tra i lettori e i
letterati. La vittoria – anzi, meglio: una vittoria qualsiasi – contro la
Germania è sempre un lieto evento, quasi una rinascita, che alleggerisce da una
sindrome di inferiorità storica pari solo a quella dei tedeschi verso il nostro
passato, e che ci fa ben sperare per il futuro in un periodo di crisi come
questo: abbiamo o no battuto la locomotiva d’Europa? Ah, potere delle
illusioni! Una vittoria, dicevo, condivisa da letterati, intellettuali e
“popolo” dell’Isola delle Storie: da tutti, insomma, tranne che dai numerosi
tedeschi presenti e teutonicamente composti nel loro dolore. Una scelta
inevitabile, ma significativa, quella di proiettare il match proprio prima
dell’inaugurazione, nell’intento di evitare lo snobismo d’antan ad una
rassegna che ha avuto in ogni edizione il merito di dare voce alle più diverse
espressioni della cultura letteraria. Perché il Festival di Gavoi, è bene
dirlo, non è mai stato il rifugio di una cultura di nicchia, ma fin dalle
origini ha ospitato dalle bookstar di chiara fama agli esordienti
sconosciuti, dagli scrittori engagé a
quelli comici, con un’ampiezza di offerta che ha sempre dato la possibilità di
confrontarsi con tutto il panorama letterario attuale e che ha rappresentato, a
mio parere, uno dei suoi maggiori pregi.
Pittau, il trombettiere di Manara e Riondino
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David Riondino durante il reading |
Michael Braun e Peter Probst
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A mezzogiorno, nel primo incontro nel salotto del festival,
a Sant’Antiocru, si dibatte sul tema della felicità, vista non nella sua
declinazione individuale, ma in quella sociale. Sembra perfetta quindi la
lettura che l'attore Eros Miari fa dei versi di Zanzotto, inserita in un
omaggio al poeta scomparso , e le cui opere precederanno gli appuntamenti di
tutta la giornata di venerdì: «In questo progresso scorsoio/ non so se vengo
ingoiato/ o ingoio». Mentre dei nebulizzatori tentano di rinfrescare l’aria
torrida, Giovanni Maria Bellu, moderatore dell’incontro, parla di sua figlia e
di come cresca in fretta. La sorpresa iniziale nel sentirlo parlare di un
dettaglio così intimo della sua vita privata si chiarisce presto: sua figlia
non crescerà all’infinito perché ciò è impossibile, e la stessa cosa vale per
le società e le economie; la pretesa di una crescita continua, infatti, non
porta felicità, ma solo frustrazione. Dello stesso parere sembra essere
Meinhard Miegel, scienziato sociale tedesco in forza alla commissione per il
benessere e la qualità della vita del Bundenstag, che aggiunge: «dalla cacciata
dall’Eden in poi, l’uomo ha dovuto fare i conti con tre maledizioni: la fame, i
dolori del parto e la morte». E io che pensavo fossero Andreotti, le mogli e la
cucina tedesca! Meglio così. Nel corso della storia, continua Miegel, si è
riusciti solo in parte a contrastarli, fino al XIX secolo, in cui i passi
avanti sono stati sempre più numerosi e significativi.
Dal Novecento – superati in Occidente i tre tormenti biblici – si è però aggiunta una nuova maledizione, tutta nuova: quella del produrre, del crescere a non finire. Prende a questo punto la parola l'altro interlocutore, Giorgio Boatti, scrittore e giornalista d’inchiesta che ha pubblicato recentemente per Laterza Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni, in cui parla della sua esperienza di “ritiro materiale” al di fuori del consumismo. Boatti descrive la sua scelta di essenzialità come frutto di un periodo di crisi che, confessa, gli ha cambiato l’esistenza proprio partendo dalla quotidianità, dall’oggettualità, fortino di abitudini dannose. La discussione procede senza grossi intoppi, l’accordo tra i tre è pressoché totale: consumare, ingrassare, sprecare sono dannosi per tutti, la crescita eccessiva e la modernità sono fonte d’infelicità, e via dicendo. Tutte tesi condivisibili sul piano teorico e sostanziale, ma due interventi ne smascherano subito l’afflato retorico. «Mi dia dei numeri! Quanto dovrei decrescere? Il mio blackberry è uno spreco? La prego, mi dia dei numeri!»: è questa la prima obiezione portata da un Antonio Pascale combattivo e scapigliato ad un discorso che per quanto affascinante e in alcuni punti addirittura idilliaco (tornare all’essenzialità della terra, vivere all’aria aperta, lavorare meno e far l’amore tra i boschi? A me piacerebbe... Basta che il bosco non sia una pineta!) risulta in verità molto spinoso proprio per la sua indeterminatezza. Se il rischio, ammette Miegel, sarebbe quello di un’autorità che dica che cosa è e che cosa non è spreco, finendo ben presto per configurare le condizioni di un regime di stampo socialista, la soluzione non può che essere nell’autocoscienza. Il disagio in sala, a questo punto, è però percepibile, forse anche per il tono provocatorio di Pascale. A perseguire il percorso critico ci pensa Marco Belpoliti, che annota come molte cose non abbiano una effettiva utilità, ma un valore prettamente simbolico: «la cappella Sistina non ha alcuna funzionalità, ma credo che nessuno possa dire che sia inutile o uno spreco». E qui casca l’asino! Perché faccio la stessa domanda anche a te, lettore: a che cosa saresti disposto a rinunciare per il bene del mondo? Intendo: oltre a non comprare più Ferrari e vestiti di lusso, che cosa c’è di inutile che ti circonda e che adesso sei disposto a non rinnovare mai più? Il tuo cellulare o la tua biblioteca? Se sei troppo grasso, smetti di mangiare troppo: da domani inizia il digiuno! Se compri troppe scarpe, non ordinarne più on line: da domani vai a piedi scalzi! La provocazione è reale. Penso a me: faccio una vita tutto sommato parca, non credo di avere particolari abitudini consumistiche oltre all'acquisto compulsivo di libri, e ho un cellulare a conchiglia da tempo immemore. Ebbene, io non saprei a che cosa rinunciare nel quotidiano. E Bellu? Bellu non rispose alla provocazione, inserendo un riferimento fumoso alla Sardegna e cambiando il target della conversazione, accennando ai Paesi in via di sviluppo, che ovviamente, Miegel ammette, non vorranno a loro volta saperne di autolimitarsi in futuro. Il tema della decrescita felice, spinoso e quanto mai attuale, avrebbe potuto ricevere una spinta dall’accettare fin dal principio una visione contrastante, che invece, si è voluto evitare cadendo in una retorica poco problematizzata e facilmente attaccabile. In definitiva, ancora non so di preciso a che cosa dovrei rinunciare, ma so che vorrei sostituire il mio cellulare.
Giorgio Boatti, Meinhard Miegel, Soledad Ugolinelli
(traduttrice) e Giovanni Maria Bellu
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Dal Novecento – superati in Occidente i tre tormenti biblici – si è però aggiunta una nuova maledizione, tutta nuova: quella del produrre, del crescere a non finire. Prende a questo punto la parola l'altro interlocutore, Giorgio Boatti, scrittore e giornalista d’inchiesta che ha pubblicato recentemente per Laterza Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni, in cui parla della sua esperienza di “ritiro materiale” al di fuori del consumismo. Boatti descrive la sua scelta di essenzialità come frutto di un periodo di crisi che, confessa, gli ha cambiato l’esistenza proprio partendo dalla quotidianità, dall’oggettualità, fortino di abitudini dannose. La discussione procede senza grossi intoppi, l’accordo tra i tre è pressoché totale: consumare, ingrassare, sprecare sono dannosi per tutti, la crescita eccessiva e la modernità sono fonte d’infelicità, e via dicendo. Tutte tesi condivisibili sul piano teorico e sostanziale, ma due interventi ne smascherano subito l’afflato retorico. «Mi dia dei numeri! Quanto dovrei decrescere? Il mio blackberry è uno spreco? La prego, mi dia dei numeri!»: è questa la prima obiezione portata da un Antonio Pascale combattivo e scapigliato ad un discorso che per quanto affascinante e in alcuni punti addirittura idilliaco (tornare all’essenzialità della terra, vivere all’aria aperta, lavorare meno e far l’amore tra i boschi? A me piacerebbe... Basta che il bosco non sia una pineta!) risulta in verità molto spinoso proprio per la sua indeterminatezza. Se il rischio, ammette Miegel, sarebbe quello di un’autorità che dica che cosa è e che cosa non è spreco, finendo ben presto per configurare le condizioni di un regime di stampo socialista, la soluzione non può che essere nell’autocoscienza. Il disagio in sala, a questo punto, è però percepibile, forse anche per il tono provocatorio di Pascale. A perseguire il percorso critico ci pensa Marco Belpoliti, che annota come molte cose non abbiano una effettiva utilità, ma un valore prettamente simbolico: «la cappella Sistina non ha alcuna funzionalità, ma credo che nessuno possa dire che sia inutile o uno spreco». E qui casca l’asino! Perché faccio la stessa domanda anche a te, lettore: a che cosa saresti disposto a rinunciare per il bene del mondo? Intendo: oltre a non comprare più Ferrari e vestiti di lusso, che cosa c’è di inutile che ti circonda e che adesso sei disposto a non rinnovare mai più? Il tuo cellulare o la tua biblioteca? Se sei troppo grasso, smetti di mangiare troppo: da domani inizia il digiuno! Se compri troppe scarpe, non ordinarne più on line: da domani vai a piedi scalzi! La provocazione è reale. Penso a me: faccio una vita tutto sommato parca, non credo di avere particolari abitudini consumistiche oltre all'acquisto compulsivo di libri, e ho un cellulare a conchiglia da tempo immemore. Ebbene, io non saprei a che cosa rinunciare nel quotidiano. E Bellu? Bellu non rispose alla provocazione, inserendo un riferimento fumoso alla Sardegna e cambiando il target della conversazione, accennando ai Paesi in via di sviluppo, che ovviamente, Miegel ammette, non vorranno a loro volta saperne di autolimitarsi in futuro. Il tema della decrescita felice, spinoso e quanto mai attuale, avrebbe potuto ricevere una spinta dall’accettare fin dal principio una visione contrastante, che invece, si è voluto evitare cadendo in una retorica poco problematizzata e facilmente attaccabile. In definitiva, ancora non so di preciso a che cosa dovrei rinunciare, ma so che vorrei sostituire il mio cellulare.
Sandro Bonvissuto |
Soledad Ugolinelli (traduttrice), Eva Rossmann, Chiara
Valerio e Alessandro Stellino
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Alessandra Casella, Tess Gerritsen e Juana Weber
(traduttrice)
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Antonio Pascale e Filippo La Porta
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Antonio Pascale durante l'incursione
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Gabriele Tanda
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