La fortuna editoriale e critica di Cristina Annino è inversamente proporzionale al valore della sua opera, riconosciuta da autori della statura di Franco Fortini, Elio Pagliarani, Giovanni Giudici, Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Walter Siti e altri. Tanti eccellenti avvalli non sono però bastati a riscattare l'opera della poetessa toscana da un'incredibile silenzio, che solo negli ultimi anni - e non certo per merito dell'Accademia, tuttora sorda - comincia a incrinarsi: al pari di alcuni altri grandi nomi rimasti a lungo in ombra (come Luigi di Ruscio e Giuliano Mesa), i testi di Annino hanno iniziato ad apparire su blog di poesia di qualità (come Blanc de ta nuque e La dimora del tempo sospeso), per un effetto di virtuoso passaparola. Nel 2009 la casa editrice puntoacapo compie la meritoria impresa di raccogliere quarant'anni di poesia in un solo volume antologico (Magnificat. Poesie 1969-2009), rendendo disponibili a un pubblico più vasto poesie ormai divenute quasi introvabili.
Leggere una poesia come la sua, eccentrica ma rigorosa al tempo stesso, in un periodo di uniformazione stilistica e tematica come quello corrente, è salutare e inevitabilmente straniante (l'illustre e forse solo precedente che mi viene in mente è quello di Amelia Rosselli). Viscerale e vitale, ma al tempo stesso refrattaria come poche al canto lirico, la sua poesia combina con sapienza istintiva colloquialismi e perfino demotismi con dislocazioni logico-sintattiche disturbanti ma necessarie, chiamando a una lettura che mina il logos ma anche gli automatismi inconsci delsurrealismo, pure non estraneo, come messo in luce da una nota di Walter Siti riportata in fondo a Magnificat.
La scelta che qui propongo (una scelta più di gusto personale che rappresentativa dell'autrice, cosa d'altronde impossibile in uno spazio ridotto come questo), mette in evidenza lo sfrontato colloquialismo del primo libro ("Non me lo dire, non ci posso credere", che non a caso reca la data di grazia 1969) e la maggiore visionarietà delle raccolte successive, dove la lingua poetica, personalissima e precisa, è veicolo di
travestimenti (ad es. l'io maschile anziché femminile) vòlti a evitare l'autobiografismo, sostituendolo con una presa diretta della stessa vita del linguaggio, con quella che Pagliarani chiama "action poetry" su analogia dell'action painting.
Corredano Magnificat alcune chicche, come le lettere di Sereni e Fortini alla poetessa, e un'antologia critica di qualità, necessaria per capire le coordinate estetiche e culturali di questa poesia così orgogliosa e indomabile. Infine segnalo, per chi volesse approfondire, il sito personale dell'autrice.
Edizione di riferimento: Magnificat. Poesie 1969-2009, a cura di Luca Benassi e Stefano Guglielmin, Puntoacapo, 2009. Selezione dei testi e introduzione a cura di Davide Castiglione.
Da Non me lo dire, non posso crederci, 1969
Accendere
prendere una sigaretta;
non approfittare della voglia di parlare
che ho oggi
Amo il padre e la madre
mio padre e mia madre
gli abiti che indossano
il profumo che si dividono
senza mai reggere a un capitolo
del tutto personale.
"Ci siamo" dissi
e come un Francesco mi accinsi
a uscire sulla via senza mai
girarmi e impicciolito nell'occhio di loro
il padre e la madre
lei triangolare lui rombo
sopra il davanzale quieti a guardarmi
mentre sparivo.
Ora fumo pensavo
ora accendo una sigaretta
e una mano ancora mi pende fino al ginocchio.
Il dormire mi preoccupa
e i tecnici della psiche e il mio passato piromane
e l'infanzia sottile che mi chiude
il torace.
Sono magro di media statura
i capelli tagliati corti
nulla di inconsueto.
Da Il cane dei miracoli, 1980
Visita all'esterno
Lingua, atroce vento di lingua-abete;
il vento pesa come una lunga corda
su cui viene il viso-neve della sera.
Case di sorda, vera lingua di spade.
Un paesaggio cos'è? Raramente mi piace,
ma quando tutto si fa lingua,
si srotola e cade; un cadere di corde,
e l'aria si tigna, io metto un grave
cappuccio di ansietà, e il cane trasporta
groppe di stagnola secca.
La pioggia, anche, accende
le sue code e lecca le strade.
Allora, con dolore e prudenza
io so, un paesaggio cos'è.
Da Madrid, 1987
Tutte le conseguenze sono state fatte
Ormai l'accetto da molto tempo. Lei
è scesa davanti a me, mattone dopo mattone come una
casa, dall'autobus bella e quale un evento
eccezionalmente pesante. Chi fa
per me pensandomi, vale a dire decidendomi, come
dire il destino o gli altri sulla mia testa, hanno
la lunghezza misurabile e il clima breve di quel pezzo di strada. Mai
ho il senso della fine quanto percorrendola. Potrei
stare senza: nel sonno imparo cose del mio
corpo non facendo niente, e mezzo mondo è sotto
il sole stupido. Ma le
faremo alla fine lo stesso le
scale, l'acquaio, la fame, le stanze. Con calma. E che
bontà almeno non parlare mai di Ritsos.
I nuotatori
Parola di luce e di clima: tre cani (due
mastini e un pastore tedesco) giungono sul mare,
sembrano
mettersi la cuffia, uno di qua, gli altri liquidi
al largo. Poi
tornano come lampadine o olio che sa di sapone. Risalgono
mille volte, per grazia di Dio,nella mia
testa, più in silenzio d'un nuotatore.
Dopo,
li copro in tutto con la persona, io, quando
a macchina la calligrafia cala la gomma nera e la schiuma
sola lascia bene le rocce. Si facosì
ogni parola più del silenzio perché ancora torna
in su dal basso e taglia
come la luce senza nulla né bocca, l'acqua.
Da Gemello carnivoro, 2002
Al termine della notte
Oh volentieri si farebbe
a meno dei guai della bolla papale,del
dentifricio; ci laveremo
i denti con limone di totani ormai
diventati secchi.
Vomitavo
tutte le notti il guanto
rovesciato dello stomaco di cani di razza. Ero
io; sempre
sopra qualcosa di concavo, fosse
tazza o vulcano, prendevo con la mano l'erba
saltatami in viso da chissà dove; guardavo
quella vita bassa. Avevo
la faccia di chi ha vomitato vassoi
interi, di birre fritte, animali. Di chi
non l'ha ancora fatta finita. Scatole
di negozi e acque
naturali, cascate col gas, eserciti di pelati.
Andante pesante con abbandono
(Per Daniela Marcheschi)
Il piatto
filippino preferito è la scimmia. La portano in
ginocchio, il viso sulla tovaglia poi
il cervello lo segano vivo. Ci facciamo
un'idea del mondo mangiando, del modo
di fare ordine della vita, radio, giornale, d'un
patito giallista.Io
mai m'abituo; ma l'auto
sul viadotto s'allontana simile al viso ben diviso
della barista, nel mattino: triste, ben
triste, in due. Come si va
semisoli insieme giù per la strada.
Danì
capisce il chiodo nel cervello; lo batte un solo
uomo, certo, e l'inferno detto la via. Lei ha
un diverso rapporto con la carne; ma stan
piegando la sua natura, così dentro il letto. La
stan mettendo sotto spirito: i piedi sul lato
del vetro e testa al contrario. Una foce. Leggi
fato. Anche il Nilo
si guarda da ragazzi e per primo ci prende in giro.
O quando
uno di noi s'alzò nel sonno dicendo "lo zio ama i negri!".
Per legge
di gravità il tempo è passato. Siamo ormai
diventati, con moto
che allontana dal posto, e dei negri ci importa
poco. Ora c'è
un comportarsi da zie e tutto il resto. C'è non essere
più capaci del colmo. NOI
digeriamo QUEL piatto. Insomma ormai del sonno
ci appartiene l'insonnia.
Di lei. Che si strappa
di dosso l'io semifuso dal corto circuito d'uno
sbalzo di pressione nel sangue.
Sviene
indietro come l'acqua del Nilo va su. Colpito
in un lampo in viso il centro della memoria. Dati.
Mentre
dal toporagno arboricolo a noi, il tempo evolutivo
è settantacinque milioni d'anni. Dice la radio.
Da Magnificat (inediti)
Dentro l'urna
La pena serpente gli
stacca ogni giorno un pezzo di sé
che distende per aria. Eccola
lì, la sua
carne al vento vescovile. Va
sempre a nanna così, col quarto
di bue. Transita i suoi
chili romantici. Mica bene,
ossigeno puro ammoniaca
distanza! "Ma non c'è sul
serio un posto dove nascondersi
in quest'odore uguale di tutte le
lingue, le tristi membra alcoliche,
d'acqua, i nodi delle varici coi
nomi latini di botanica?"