Miklós Radnóti (1909-1944) è uno dei massimi poeti ungheresi del Novecento, degno di essere incluso – secondo la curatrice e traduttrice Edith Bruck – “nella famiglia dei grandi lirici europei del primo Novecento”. Nonostante ciò, la sua conoscenza in Italia è assai limitata: lode dunque a Donzelli editore, che ne propone un’antologia di qualità, con testo ungherese a fronte (che non mi sembrava il caso di riportare qui!) e corredata da traduzioni di alto livello: Edith Bruck, poetessa d’adozione italiana ma d’origine ungherese lei stessa, riesce infatti a ricreare in italiano il passo composto, limpido e appena incrinato dell’originale, pur nella ovvia impossibilità di riprodurne le rime – che in una lingua come l’ungherese suonano assai meno arcaiche che in italiano, probabilmente perché, a differenza che in Italia, lì non c’è un divorzio tra le forme popolari classiche e quelle alte. La nota della stessa traduttrice al volume è utile per inquadrare la tragica esistenza del poeta, ma non dice molto sulle influenze letterarie e non offre un più vasto quadro critico e interpretativo della sua opera, lasciando invece – a ragione, certo, ma con un’insistenza forse eccessiva – che a parlare sia la vicenda biografica.
Dalla piccola selezione che segue emergono tre tematiche, spesso intrecciate tra loro: quella lirica e amorosa per la moglie Fanni (la prima e la terza poesia), quella del mondo naturale (Radnóti ha scritto famose egloghe, troppo estese per poterle riprodurre qui), come nella seconda poesia e nella quarta, dove la presenza della guerra (la poesia è stata scritta nel 1944) è tangibile nello stridente contrasto col mondo naturale. Infine, la guerra e la morte stesse, che tornano ossessivamente nei versi di Radnóti, per raggiungere l’amaro apice nell’ultima poesia: qui l’epilogo tragico della vicenda personale del poeta – ucciso con un colpo alla nuca in un campo di concentramento dai fascisti ungheresi – è reso con una lucidità e asciuttezza impressionanti.
Edizione di riferimento: Miklós Radnóti, Mi capirebbero le scimmie. Poesie (1928-1944). A cura di Edith Bruck. Donzelli, 2009.
Selezione dei testi e introduzione a cura di Davide Castiglione
Pomeriggio d’ottobre
Fanni dorme accanto a me sotto la quercia,
da quando dorme tante ghiande sono cadute,
mi metto a litigare con ogni fronda innocua –
perché con un abbraccio ha chiesto di vegliarne il riposo.
Ma il sole mi strizza l’occhio attraverso il cespo della fronda,
e mi assediano i ronzii delle vespe arrabbiate.
La fronda risponde ghianda su ghianda,
ne cade una, poi subito un’altra, non riesce a stare sull’albero.
Fanni si desta, gli occhi azzurri insonnoliti,
le mani così belle, mani di immagini sacre, preoccupata
cerca di riconciliarmi con la fronda, mi accarezza la bocca
e tiene il dito ancora sui miei denti che mordono
per non farmi parlare. È così che si prepara il nuovo silenzio
e dal silenzio lassù sono sei giorni
che la pioggia sibila pioggia, lavando via le ghiande,
legandoci come un nastro nero al novembre.
Notte
Dorme il cuore e dorme nel cuore l’ansia,
accanto alla ragna sul muro dorme la mosca;
la casa è silenziosa e non raspa neppure il topo,
dorme il giardino, il ramo dell’albero, il picchio nel tronco,
l’ape nell’arnia, l’insetto della rosa nella rosa,
dorme l’estate nei chicchi di grano crepitante;
dorme la fiamma nella luna, la faccia fredda nel cielo;
l’autunno si alza e nella notte come un ladro entra rubando.
Ode titubante
Mi preparo da tanto per dirti
il misterioso sistema stellare del mio amore;
in una sola immagine forse o solo l’essenziale.
Ma sei brulicante e trabocchi in me come il mio essere,
e a volte così sicura,così eterna,
come nella pietra la chiocciola pietrificata.
Sopra la mia testa scorre la notte striata dalla luna
e frusciando caccia i piccoli sogni fugaci.
E non so ancora dirti
eosa significa per me, quando lavoro,
sentire il tuo sguardo protettivo sulla mia mano.
Non c’è paragone che valga. Mi viene in mente, ma lo butto via.
L’indomani comincio tutto da capo,
perché io valgo quanto la parola
nei miei versi, e questo mi agita
finché non restano di me che le ossa e qualche ciuffo di capelli.
Sei stanca, e anch’io sento che il giorno è stato lungo,
cos’altro posso dire? gli oggetti sul tavolo
ti guardano incantati, ti ammira mezza zolletta
di zucchero, e una goccia di miele cade e brilla
sulla tovaglia come una pallina d’oro,
il bicchiere dell’acqua vuoto suona da solo.
È felice perché vive con te. E forse avrò ancora tempo
per dirti com’è l’attesa di te.
Il buio cadente del sonno ogni tanto ti sfiora,
vola via, poi torna sulla tua fronte,
gli occhi assonnati mi mandano ancora un cenno di saluto,
i tuoi capelli si sciolgono, si spandono in fiamme
e ti addormenti. L’ombra delle lunghe ciglia batte.
La tua mano cade sul mio cuscino, ramo di betulla
che addormenta,
ma anch’io dormo in te, non sei un altro mondo.
E sento fin qui mutare le tante
linee sottili e misteriose
nel tuo fresco palmo.
Non posso sapere…
Non posso sapere cosa significa per un altro questo paesaggio,
per me è la casa natia abbracciata dalle fiamme,
un piccolo paese, culla del mio lontano mondo infantile.
Mi ha generato, come il tronco dell’albero il fragile ramo,
anche il mio corpo, spero, sprofonderà in questa terra.
Sono a casa. E se a volte s’inginocchia ai miei piedi
un cespuglio, so il suo nome, ne conosco il fiore,
so dove va chi cammina per strada,
so cosa significa in un crepuscolo estivo
il rosso dolore che cola dai muri.
Per chi lo sorvola in aereo, il paesaggio è una carta geografica,
ignora dove ha abitato Vörösmarti Mihály*;
quella carta cosa gli nasconde? A lui fabbriche e rozze caserme,
a me cavallette, buoi, torri e miti fattorie;
lui dal binocolo vede fabbriche e campi coltivati,
io invece anche il lavoratore che trema per il suo lavoro,
boschi, frutteti fischiettanti, vigneti e tombe,
tra le tombe la vecchina che piange in silenzio,
e ciò che dall’alto è ferrovia da distruggere, o fabbrica,
è la casa cantoniera, e il cantoniere è lì davanti,
con la bandierina rossa in mano e tanti bambini attorno,
nel cortile delle fabbriche un mastino si rotola per terra;
ed è lì anche il parco, l’impronta di vecchi amori,
il sapore dei baci nella mia bocca, a volte miele, o uva selvatica,
un giorno andando a scuola sul margine del marciapiede,
per non essere interrogato ho urtato una pietra,
ed eccola quella pietra, ma dall’alto non si vede,
non c’è strumento che possa mostrare tutto questo.
Certo, siamo colpevoli, come gli altri popoli,
e sappiamo in cosa abbiamo peccato, quando, dove e come,
ma qui vivono anche lavoratori, poeti innocenti,
e bimbi in fasce nei quali cresce la ragione,
li illumina da dentro, li veglia, nascosti in buie cantine,
finché il dito della pace non indicherà la nostra patria,
e alla nostra parola soffocata risponderanno loro con fresche parole.
Vigile nuvola notturna, stendi su di noi le tue grandi ali.
*Grande scrittore e poeta ungherese (1800-1855)
Razgledniche**
1
Dalla Bulgaria il rumore fitto, selvaggio del cannone
rotola con un tonfo sul dorso della montagna, poi esita e cade;
si ammassano uomo, animale, carro e pensiero,
la strada nitrendo indietreggia e il cielo corre con la criniera.
Tu sei costante in me nel caos in movimento,
luce nella mia più profonda coscienza perennemente immota
e muta, come l’angelo quando contempla un massacro
o l’insetto che si seppellisce nell’incavo dell’albero tarlato.
2
A nove chilometri da qui bruciano
le biche e le case,
sul bordo dei prati sono seduti muti e allarmati
i contadini che fumano la pipa.
Qui ancora si increspa il lago
quando la pastorella immerge i piedi
e il gregge ricciuto chino sull’acqua
beve la nuvola.
3
Dalla bocca dei buoi gocciola saliva insanguinata,
gli uomini tutti orinano con sangue,
la “compagnia” maleodorante sosta selvaggiamente ammucchiata.
Sopra di noi soffia la morte mostruosa.
4
Gli crollai accanto, il corpo era voltato,
già rigido, come una corda che si spezza.
Una pallottola nella nuca, - Anche tu finirai così, -
mi sussurravo – resta pure disteso tranquillo.
Ora dalla pazienza fiorisce la morte –
“Der springt noch auf”, suonò sopra di me.
E fango misto a sangue si raggrumava nel mio orecchio.
**Razgledniche in serbo significa cartoline postali. Queste furono scritte tra le montagne alla fine dell’ottobre 1944, e mai spedite.