Silvio Perego, "Gli impiegati vanno di fretta"


Gli impiegati vanno di fretta
di Silvio Perego
Lampi di stampa, 2012
pp. 74, € 10



C'è rabbia, malinconia e un diffuso senso d'impotenza ne Gli impiegati vanno di frettaraccolta di poesie dove la necessità di dire, magari anche imprecando, è potente e accetta il rischio di sconfinare - almeno secondo i parametri del canone letterario italiano - in trasandatezza, oltraggio alla bella forma e alle volute armoniche da sempre dominio delle nostre lettere.
Silvio Perego guarda piuttosto agli americani (c'è del beat, c'è l'influsso ritmico del jazz; e Jazz, non a caso, è l'opera d'esordio di Perego), le sue poesie costituiscono per la più parte un continuum di versi giustapposti, adatti alla recitazione, dove invettiva e racconto si intrecciano.
Così certe cadute espressive (ne accennerò più avanti) sono non solo risarcite da passaggi rimarchevoli per freschezza e incisività, ma entrano a far parte di un tutto offerto senza reticenze: la scoria e l'essenza convivono, dando battaglia - non so se intenzionalmente, ma questo ha meno importanza - alla concezione di una poesia intesa come mediazione e sublimazione. L'espressione poetica si fa così documento - trascritto il più direttamente possibile - del proprio incontro-scontro con il mondo.
Se di ribellismo giovanile si può parlare, sarebbe comunque sbagliato vedere nella posizione del poeta una volontà romantica di opposizione e di procurata persecuzione: piuttosto, la voce in questi versi è quella di uno sconfitto - emblema di una generazione in enorme crisi economica  e di valori -  ma fortunatamente estranea al cinismo, perché davanti alla "faccenda del pianeta" che è "più grave del previsto" non sa comunque rinunciare a uno stupore negativo, all'indignazione.
Siamo, insomma, agli antipodi rispetto alla poesia dell'ineffabile, della torre d'avorio che oggi fa poco più che ripetere stanchi poetismi. Qui non ci sono simboli, non ci sono immagini archetipiche; piuttosto, una caparbia adesione al fenomenico, còlto spesso nei suoi aspetti più disturbanti, come "le gambe venose di una vecchia / strizzate nel budello di un gambaletto color carne" (p. 61), metonimia di uno schifo, di un rifiuto del mondo ben più vasto.
Il rifiuto però è solo apparente: il vero rifiuto è di chi tacerebbe. C'è invece della passione, un giusto ostinarsi a guardare pur sapendo del male che ne deriva ("tutte le volte che guardo fuori dalla finestra della camera 411 / avverto sempre la stessa sensazione / di essere in ritardo" recita l'attacco del libro, la bellissima poesia "intro"). Certo, c'è un meccanismo ambiguo per cui sulla carta ci si nega il diritto di esistere e di parlare ("ma io non posso dire niente / perché / io non sono niente", p. 61) quando poi lo si esercita a gran voce, a volte, forse inevitabilmente, scontando l'impeto nella retorica facile ("l'asia non sa dove stare / crede sia sufficiente rivendere le sue magliette a queste pance / pelose occidentali / per essere perbene", p. 15) o in talune acerbità ("ho perso tutto quanto / ma non me stesso",p. 53).
Tuttavia, come ho detto prima, sarebbe ingeneroso interrogare la tenuta di tutti i versi: quella di Perego è una poesia che vuole essere letta e assunta con la stessa rabbia, la stessa scarica elettrica con cui è stata scritta. E' una poesia che dà il suo meglio, a mio parere, laddove lascia l'invettiva per approdare a un lirismo asciutto, come il finale della già citata intro:
e per quanto mi sforzi, non riesco ad andare oltre l'orizzonte
dove vedo le stesse persone e gli stessi posti tremare
scossi da una brezza umile che ricorda
un bacio triste (p. 9)
E' difficile non restare colpiti dal tono disarmato, dall'assenza di costruzione apparente combinata però con un respiro versale preciso, con un rigore che qui (ma dovrebbe accadere più spesso) rinuncia al troppo detto, alle sbavature accennate prima. Altre riuscite mi sembrano quelle in cui immediatezza di espressione e originalità fanno un tutt'uno, come qui:
scintillo
muoio incosciente
mangio la pizza
e rido (p. 18)
O anche, con accento decisamente più lirico:
scivolo sull'inverno e sugli allori del passato
per lanciarmi remissivo
nel lussuoso vento violento del sud
che solleva la noia (p. 65)
Sul versante più "sociale", dove sarcasmo e amarezza si mescolano il risultato è potente:
il prezzo di un uomo normale è di 1,8 milioni di dollari
lo diceva una vecchia ricerca di humanforsale.com
il Presidente del Consiglio 2,2 - perché è lui
gli altri anche meno di un uomo normale
dipende dal titolo di studio, dal peso
e dalla misura del pene. (p. 42)
In questo estratto, la finta nonchalance di quanto si afferma - questa sì, a mimare il cinismo - accorda, nella finzione, statuto di verità a una fonte disumana; a questo straniamento si aggiunge l'ironia dell'elenco seguente, che accosta elementi disparati con assoluta serietà e credibilità. Un ghigno che finge apatia, insomma.
Per quanto riguarda la lingua, il lettore si sarà fatto una prima idea dai passaggi citati: accanto a una minoranza di ben gestiti lirismi, c'è un predominare di colloquialismi ("finisce che", "bevo a canna"), perfino di termini slang ("pulotto", "battona"), interiezioni e onomatopee fumettistiche ("aoh","tumb!", "sbong!", "boom!"), riferimenti a prodotti industriali o figure storiche o personalità della cultura o presenze fittizie ("Volkswagen", "Goebbels", "Clarence Brown", "Jack il Mago"): tutti segnali che la poesia non si vuole separata, ma anzi implicata nell'extra-poetico, sia esso il linguaggio comune o il patrimonio - spesso vergognoso, ma vero - storico e culturale che ci si porta dietro.
In conclusione, ne Gli impiegati vanno di fretta si trovano molte cose solitamente bandite dalla poesia nostrana: invettiva, mix di crepuscolarismo e ribelllismo, sarcasmo, cronaca, effetti di straniamento e autentici guizzi. Da parte mia, mi auguro che l'autore prosegua su questo timbro, magari interrogandosi di più sulla tenuta espressiva e sulla possibilità di una poesia che sia anche propositiva e costruttiva, che approcci cioè il reale con una disposizione non di sola amarezza e di corrosiva impotenza: ma anche di progetto, di ricerca del buono, di dialettica piuttosto che di schematizzazioni e generalizzazioni a volte rischiose. 

D. Castiglione