Ignacio Sánchez Mejías |
Uno degli aspetti più interessanti del lavoro letterario consiste nella polemica. Non esiste rivista, quotidiano, convegno, tavola rotonda o qualsivoglia altra manifestazione letteraria in cui scrittori e critici non si siano dati battaglia a colpi di articoli, lettere, interventi e, in tempi più remoti, sonetti.
Questa propensione alla polemica nasce dal fatto che la letteratura non è una scienza esatta, con un linguaggio tecnico, in grado di fornire dati empirici inequivocabili. Ogni testo è passibile di interpretazioni che sono l'una il contrario dell'altra, che sono così antitetiche da produrre nel lettore il dubbio che i due polemisti non stiano parlando dello stesso testo. Un esempio illustre è la totale inadeguatezza della teoria sul romanzo storico di Lúkacs per quanto riguarda l'interpretazione delle narrazioni storiche sulla Guerra Civile di Max Aub. La polemica letteraria è, quindi, destinata a perpetuarsi all'infinito e, in effetti, esistono casi di uomini di lettere che si sono dati battaglia sullo stesso argomento per molti anni, senza che nessuno si dichiarasse sconfitto o, per lo meno, cessasse la polemica per stanchezza.
La vis polemica distingue la critica letteraria dalla filologia più pura, che si basa sul dato inequivocabile che è il manoscritto: carta canta, verrebbe da dire. Tra i due campi di studio sta la traduzione letteraria, che si avvale della filologia per quanto riguarda l'adeguatezza del testo fonte (nel caso in cui ne esistano più versioni o più edizioni), mentre per la trasposizione nella lingua d'arrivo si avvale, in parte, della critica, non essendo le lingue in corrispondenza biunivoca ed esatta. Questo vale a dire che se consideriamo lo spagnolo (A) e l'italiano (B) due insiemi, i cui elementi sono le parole, non è assolutamente detto che ad ogni elemento di A corrisponda uno e un solo elemento di B. Quindi il traduttore è costretto a fare ricorso ad altri strumenti che si possono far confluire nel grosso calderone della critica.
Detto ciò, risulta del tutto normale che di un testo spagnolo (l'esempio è fatto per comodità mia) esistano molteplici traduzioni in italiano tutte uguali, ma tutte molto diverse perché ogni traduttore avrà operato scelte differenti. A noi il compito di giudicare una traduzione? Non esattamente perché ogni scelta se motivata e semanticamente corretta non si può definire errata, semmai impropria o poco elegante. La traduzione, quindi, per la sua naturale propensione all'imperfezione si presta all'attitudine polemica di chiunque frequenti la letteratura per mestiere o per passione. Vediamo ora uno degli esempi più interessanti (e dimenticati).
Nel 1961, sulla rivista Rendiconti, Leonardo Sciascia scrisse una recensione molto critica nei confronti di tre traduzioni del Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, il famoso poema che Federico García Lorca scrisse in calce alla morte del celebre torero, nel 1935 [1]. Le traduzioni incriminate sono quelle di Carlo Bo, Oreste Macrì e Giorgio Caproni. Il poema di García Lorca venne pubblicato in Italia per la prima volta nel 1940, in piena stagione ermetica: «complicandosi, nel primo traduttore, l'inesperienza della lingua spagnuola con l'esperienza ermetica, il risultato fu di una quasi totale oscurità» (25). Successivamente Sciascia concede ai due ispanisti e al poeta livornese di avere in parte migliorato, «ma non al punto da eliminare completamente i tralignamenti e le gratuite oscurità di cui era inzeppata la prima [traduzione]» (id.). L'obiettivo della critica sciasciana è chiaramente la scuola di traduzione fiorentina, sviluppatasi negli anni '30-'40 attorno all'ermetismo poetico. Oggettivamente, molte traduzioni di quegli anni, almeno per quanto concerne lo spagnolo, risentono dell'influenza di questo movimento, andando talvolta a snaturare testi che con l'ermetismo non hanno nulla a che vedere. Ma è quasi impossibile che una traduzione poetica non risenta della poesia nazionale del traduttore: un esempio recente è la versione dell'alessandrino baudelariano nell'endecasillabo itaiano operata da Antonio Prete [2].
Tuttavia Sciascia non si limita a una critica passiva, ma anzi entra nel vivo della polemica (e il siciliano era un maestro in tale arte!) proponendo una sua traduzione, compiendo a mio -sindacabile- avviso un errore macroscopico: «Noi non abbiamo, in fatto di lingua e letteratura spagnuola, un decimo della competenza che hanno Carlo Bo e Oreste Macrì [...] Ma forse abbiamo un punto di vantaggio nel fatto di essere siciliani» (id.). Prima di proseguire è bene precisare che Sciascia fu, oltre che scrittore, un ispanista sopraffino. La curiosità nei confronti della cultura spagnola nasce senza dubbio dal fatto che la Spagna fu presente in maniera importante -e lo è ancora!- in Sicilia. Sono convinto che lo scrittore di Racalmuto sarebbe stato un ispanista altrettanto sopraffino se fosse nato a Napoli, o a Milano, dove pure gli spagnoli hanno lasciato tracce importanti del loro dominio. Questa convinzione, tuttavia, lo porta a tradurre, sbagliando, lo spagnolo ataud (bara) con il siciliano tabuto perchè etimologicamente affini.
Detto ciò, Sciascia procede a rivedere l'intera traduzione del Llanto fornendo la propria versione.
Sono molte le divergenze tra la versione di Sciascia e quella di Macrì per questo motivo ci concentreremo su un verso che ha molto scandalizzato lo scrittore siciliano e che lo spinse a rivedere l'intera traduzione, suscitando la piccata risposta dell'ispanista.
«¡Y el toro solo corazón arriba», scrive García Lorca descrivendo il duello tra l'animale e il matador. L'espressione è ambigua, questa la versione di Bo, da cui Macrì inizia la sua risposta a Sciascia: «Solo il toro ha il cuore in alto», mentre Sciascia opta per «E solo il toro che sale nel cuore», confortato, scrive, «leggendo Machado (Juan y Martin, los mayores/ de Alvargonzalez, un día/ pesada marcha emprendieron/ con el aba, Duero arriba)» (26). L'interpretazione dello scrittore racamultese è la seguente: «nell'agonia, Ignazio sente -incubo, delirio- il toro salirgli nel cuore» (id.).
La differenza nell'interpretazione del verso è notevole: Bo, e Macrì con lui che lo difende, sostengono che il cuore sia del toro; mentre Sciascia sostiene sia del torero. La costruzione di Machado -Duero arriba- è prevista dalla grammatica spagnola, come sottolinea Macrì, e implica un verbo di movimento che potremmo tradurre letteralmente con risalire il fiume Duero. Ora, questo tipo di costruzione non si usa con i sostantivi come corazón (cuore). Ma è pur vero che García Lorca aveva genio linguistico da potersi pensare un veso grammaticamente scorretto e infinitamente lirico. L'immagine del toro che risale al cuore del torero impregnandolo di paura è suggestiva ed eloquente per chiunque abbia una seppur minima idea di cosa sia una corrida. Allo stesso tempo, però, è anche vero che nell'atto di morire il toro cade, si capovolge e termina in posizione supina, che in spagnolo si dice boca arriba. Secondo Macrì, infatti, oltre a mancare il verbo (in Machado si veda il verso pesada marcha emprendieron, citato poco fa), García Lorca modellerebbe il suo corazón arriba su un'altra costruzione spagnola, che non ha bisogno di verbo, e più appropriata dal suo punto di vista. Messa in questi termini sembra che, poeticamente, la ragione vada a Sciascia, mentre Macrì farebbe la figura dell'accademico zelante. E istintivamente, a prima lettura, io stesso la pensavo così. Ma qualcosa non tornava e andai a rivedermi la mia edizione -originale- del testo lorchiano. Ebbene, come pensavo, quel solo che segue il toro è senza accento (quindi aggettivo), il che implica che l'animale è rimasto solo e che c'è un solo corazón arriba. Diversamente, sólo (accentato), e quindi avverbio (solamente), avrebbe implicato la probabile omissione di un verbo e la versione di Sciascia sarebbe stata quella più corretta. Perché dico più corretta? Perché l'interpretazione più plausibile è quella dell'ambiguità: García Lorca in un verso concentra la morte del toro e l'orrore del torero, la sua paura. Macrì ha argomentato meglio la sua scelta di come non abbia fatto Sciascia, ma la ragione, probabilmente, ce l'hanno entrambi. Il problema sta nell'imperfezione che sottende ogni traduzione, tanto più evidente di fronte a un vero maestro della poesia. Poesia che rimane la sfida ultima, più elevata, della lingua e, di conseguenza, anche della traduzione.
Alessio Piras
[1] Si veda Leonardo Sciascia, "Del tradurre: Il lamento per Ignazio Sanchez", in Rendiconti, No. 1, 1961, pp. 25-32. La risposta di Macrì ("Una lettera di Oreste Macrì") e la contro risposta di Sciascia ("Un biglietto di Leonardo Sciascia") vengono pubblicati nel No. 2 della rivista alle pp. 106-111.
[2] Si veda Charles Baudelaire, I fiori del male, a cura di Antonio Prete. Milano: Feltrinelli, 2003.
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