di Anton Čechov
Il Narratore audiolibri
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“Quando un uomo pensante raggiunge la virilità, e perviene alla maturità della consapevolezza, si sente suo malgrado come chiuso in una trappola dalla quale non c'è via di scampo. E infatti: contro la propria volontà, in modo puramente accidentale, egli si trova evocato dal non-essere alla vita... Perché? Vuol conoscere, egli, il significato e il fine della propria esistenza, ed ecco che nessuno glielo dice, o gli dicono delle bambinaggini; bussa, e non gli viene aperto; lo sopraggiunge la morte, e anche questo gli accade contro la sua volontà. E allora, allo stesso modo che in carcere gli uomini, legati dalla comune sventura, si sentono meglio quando si riuniscono insieme, così anche nella vita non ti accorgi più di essere in trappola quando, fra uomini inclinati all'analisi e ai concetti generali, ci si raccoglie insieme e si trascorre il tempo nello scambio di fiere, libere idee. Da questo punto di vista l'intelligenza è un piacere insostituibile”.
Chi fa queste riflessioni sulla
vita è Andrej Efimjc, protagonista di uno dei racconti più intensi di Anton
Cechov (1860-1904), Reparto n.6 (1892), disponibile anche in formato audio con Il Narratore audiolibri.
Un romanzo di cui pure Lenin rimase inorridito, incapace di restare a casa, turbato come se fosse stato lui
stesso rinchiuso in quel reparto che Leskov riteneva simbolo di tutta la Russia.
Andrej Efimjc è un inquieto
medico (come lo stesso Cechov), di uno squallido ospedale di provincia, dove
nel reparto n.6 - tra “materassi, vecchie tuniche lacere, pantaloni, camiciotti
rigati di blu, calzature logore, inservibili, […] un ciarpame ammassato a
mucchi, che sta lì a marcire e manda un tanfo soffocante”- sono rinchiusi
cinque matti, sorvegliati e picchiati selvaggiamente dal guardiano. Uno di questi, Ivan Dmitric, soffre
di mania di persecuzione (meglio definita come delirio di persecuzione: de-lirio ovvero fuori dalla “lira”, dal
solco… ancor oggi si dice andar fuori dal seminato ovvero fuori dalla diritta
via) e si distingue dagli altri matti del reparto 6 per nobili origini e
cultura. Andrej Efimjc non tarderà a
colloquiare con il malato e a ritenere quell’insolita compagnia l’unica che gli
garantiva una conversazione intellettualmente interessante, dandogli quel
“piacere insostituibile” che ricercava, convinto, come Marco Aurelio, che il
bene si può raggiungere solo tramite la comprensione della vita: “Se vi sollevaste più spesso alla meditazione", obietta di fronte
alle sofferenze di Dmitric "comprendereste allora quanto siano
trascurabili tutte quelle esteriorità che vi mettono in tanta agitazione.
L'essenziale è di tendere alla comprensione della vita: raggiunta questa, si
ottiene il vero bene” poiché il dolore è solo una rappresentazione del
dolore.
Ivan Dmitric è una sorta di
filosofo, interessato ai problemi dell’esistenza e nichilista, prima diffidente
– causa malattia appunto – verso quel dottore “stranamente” insistente, poi
provocante.
Demolendo rapidamente le certezze
di Efimjc, dello stoicismo dirà:
“Una dottrina, la quale predica l'indifferenza alla ricchezza e agli agi della vita, il dispregio delle sofferenze e della morte, riesce assolutamente incomprensibile all'enorme maggioranza degli uomini, giacché quest'ultimi non hanno mai conosciuto, nella vita, né ricchezza né agi; e d'altro canto, disprezzar le sofferenze, equivarrebbe per essi a disprezzar la vita stessa, giacché tutta l'esistenza umana consiste in sensazioni di fame, di freddo, di offesa, di privazione, e di amletico terrore davanti alla morte”.
Continuando poi ad amplificare i
suoi tormentosi dubbi metafisici, dai toni molto simili alla Vanitas vanitatum della Qoelet/Ecclesiaste:
“Oh, perché l'uomo non è immortale? pensa tra sé [Efimjc, Ndr]. A che scopo le circonvoluzioni e i centri
cerebrali, a che scopo la vista, la parola, la coscienza, il genio, se son
tutte cose condannate a ridursi in polvere e, da ultimo, ad agghiacciarsi
insieme con la scorza terrestre, e quindi per milioni di anni, senza senso e
senza scopo, continuare a girare con la terra intorno al sole? Per il bel
risultato di convertirsi in ghiaccio, e quindi di girare a questo modo, non c'era
nessuna necessità di trarre l'uomo fuori dal nulla, col suo elevato, quasi
divino intelletto, e poi, quasi per beffa, tramutarlo in argilla.”
Incalzandolo ed evidenziando la
supremazia del corpo e la concretezza del vivere:
“Dio mi ha creato di sangue caldo e di nervi, già! E poi, un tessuto organico, se è vitale, deve reagire a tutte le irritazioni. E io reagisco! Al dolore rispondo con le grida e con le lacrime, alle bassezze con lo sdegno, alle turpitudini con la nausea. A parer mio, appunto in questo consiste la vita. Quanto più in basso sta un organismo, tanto meno è sensibile, e tanto più debole è la risposta che dà agli stimoli esterni: e quanto più sta in alto, tanto più è ricettivo, e con tanta più energia reagisce alla realtà. Come ignorare cose simili? Siete un dottore, e non sapete certe piccolezze! Per poter disprezzare il dolore, essere sempre contenti e non meravigliarsi di nulla, bisogna ridursi, ecco, in quello stato lì - e Ivan Dmitric indicò il massiccio, obeso contadino. [uno dei cinque matti, Ndr] - Oppure indurirsi talmente alle sofferenze, da perdere ogni sensibilità per esse; cioè, in altre parole, cessare di vivere”.
L’attacco di Dmitric si farà poi
anche personale. Rivolgendosi a Efimjc lo accuserà:
“voi, di natura vostra, siete un uomo infingardo, flaccido, e quindi avete fatto di tutto per sistemare la vostra vita in modo che nessuno vi infastidisse o vi costringesse a spostarvi di pezzo”
“io voglio sapere per quale motivo, nelle faccende della comprensione, del disprezzo delle sofferenze, eccetera eccetera, voi vi ritenete un competente. Perché avete forse sofferto qualche volta?”
Quando alla fine il dottor Andrey
Efimjc, sconvolto da una crisi esistenziale ormai irreversibile e nella più
completa mancanza di comprensione di amici e conoscenti, sarà ricoverato a sua
volta e conoscerà, per esperienza diretta, l’orrore
della sofferenza, beffardamente Dmitric gli consiglierà di confortarsi con
la filosofia, avendogli dimostrato che “con
la realtà delle cose non avete che una conoscenza teorica”.
La principale lezione di questo
capolavoro è tutta racchiusa in una perla del decimo capitolo (che contiene tra
l’altro la maggior parte delle frasi che ho riportato):
“Un giovane chiede consiglio, cosa fare, come vivere; prima di dargli una risposta, un altro ci penserebbe ben bene; qui invece la risposta è già pronta: tendi alla comprensione, ovvero sia al bene verace. Ma che cos'è, questo fantastico BENE VERACE? La risposta qui manca, beninteso! Noi altri siamo tenuti qua in gabbia, ci fanno imputridire, ci torturano, ma anche queste sono cose eccellenti e razionalmente giustificabili, con ciò sia cosa che tra questa corsia e un tiepido, accogliente scrittoio, non c'è alcuna differenza. Oh la comoda filosofia: da fare, non c'è nulla, la coscienza è netta, e hai la sensazione di essere un sapiente... Ah no, illustre signore: non è filosofia questa, non è meditazione, né larghezza di vedute; bensì è pigrizia, è fachirismo, è sonnolenta ebetaggine”.
Se la filosofia riuscisse a comprendere
appieno questa lezione di Cechov, solleticherebbe meno la mal celata diffidenza
di un mondo destinato ad confrontarsi saldamente con la realtà, non cederebbe a
facili intellettualismi e invece di limitarsi a “misurare il salto di una pulce
o il ronzio delle zanzare” (come nella commedia “Le nuvole” di Aristofane), si
confronterebbe con l’uomo e con la sua esistenza tormentata cioè con quei
problemi abissali e angoscianti che ci rendono fragili di fronte alle sofferenze e alle meschinità:
“Nessun posto, nessun posto fa per noi. Siam deboli noi altri, mio caro... Io ero così indifferente a tutto, ragionavo con tanta baldanza, così giustamente: eppure è bastato che la vita mi facesse sentire il suo contatto brutale, perché subito io mi accasciassi...”
Amava dire, il celebre autore de Il giardino dei ciliegi, una delle opere teatrali più rappresentate al mondo:
“se nella vostra storia descrivete un fucile, questo poi deve sparare”. La sensazione, netta, è che in
questo racconto Cechov abbia, in effetti, sparato e colto nel segno.
Giuseppe Savarino
Giuseppe Savarino