di Michela Marzano
Erickson Edizioni, 2012
€ 8
Michela Marzano, professoressa di filosofia morale all’Université
Paris Descartes, è nota al grande pubblico per un libro autobiografico
sull’anoressia, “Volevo essere una
farfalla” (leggi la recensione), e per alcune apparizioni televisive, in particolare su Rai Due
nella ben conosciuta trasmissione di dibattito politico, Ballarò, condotta da Giovanni Floris.
Il suo libro più recente, “Cosa fare delle nostre ferite? La fiducia e
l’accettazione dell’altro” (poco meno di cento pagine) è tratto, in parte
da un suo intervento presso un convegno internazionale svolto a novembre del
2011 a Rimini, e in parte da altri due scritti inediti.
Alla filosofia morale, ammette la
stessa autrice, si è avvicinata per reazione alla “filosofia analitica”, che
ridurrebbe l’uomo a un essere troppo razionale.
Una filosofia troppo fredda e
neutrale, sostiene, che non considera le debolezze e le “ferite” ovvero i sentimenti
e gli aspetti psicologici che caratterizzano l’uomo.
Uno dei punti di forza di questa filosofa
“anomala” è proprio la capacità di sapersi rapportare, tramite una scrittura
limpida e scorrevole, al proprio corpo, traendone delle lezioni impersonali e generali.
Un punto di forza però che è
anche il suo limite: sembra più una psicologa o al massimo una sociologa (come
si sa, le etichette servono a creare confini che non esistono).
Non è un caso che altre sue opere
si intitolano “Dictionnaire du corps”
o di “Dictionnaire de la violence”
(in lingua francese, assieme ad altri autori) e non è un caso che anche questo
libro inizia dal racconto intimo - dunque sofferto - della sua vita apparentemente
“riuscita” e perfetta ("un ottimo esemplare di animale da premio", alla stessa stregua del giovane Rimbaud).
Come sostiene Georges Canguilhmen, “le riuscite sono
mezzi fallimenti” e difatti ben presto questa apparente perfezione si
trasformerà nell’incubo dell’anoressia.
Malattia (anche questo non è un
caso) in rapporto diretto col corpo o meglio - più tecnicamente - con l’”enterocezione” e con il “dismorfismo”,
rispettivamente la consapevolezza dello stato interno del proprio corpo (e
delle sensazioni connesse quali fame e sete) e la percezione distorta del
proprio aspetto fisico (indagini di fMRI-risonanza magnetica funzionale sul
cervello sembrerebbero confermare questa connessione).
Nello stesso tempo una malattia
molto discussa, per il suo peculiare aspetto di “malattia del mondo
industrializzato” (come molti disturbi del comportamento alimentare), legata al
benessere e al consumismo, e spesso sottovalutata, quando non circondata da
diffidenza e superficialità.
L’autrice riuscirà a superare
questo inferno labirintico attraverso un sofferto processo che progressivamente
la porterà all’accettazione di sé e delle proprie debolezze (e in senso
generale a riflettere su queste tematiche).
L’incapacità di fondo del mondo
moderno nei confronti del corpo deriva dall’incapacità di concepirlo soltanto
se padroneggiato, “prova evidente della capacità di un individuo di assicurare
un controllo sulla sua vita”.
Il corpo cioè diventa “la
quintessenza della riuscita sociale, della felicità e della perfezione” e il
contesto sociale (dalla pubblicità ai vari media) non fa altro che esaltare
diete, chirurgie estetiche, estetica e cura del corpo.
Dietro tutto, c’è il mito
dell’autonomia, dell’indipendenza e della fiducia in se stessi, affermatosi
dagli anni ’80 in poi e tendente ad esaltare al massimo la responsabilità
personale dell’individuo, passando invece in secondo piano gli altri fattori
quali il caso, la fortuna, le relazioni, ecc., e negando di fatto il “principio
di realtà” freudiano.
Le premesse da cui parte Marzano
sono le stesse del sociologo George
Simmel o di Annette Baier per
cui la fiducia è un dipendere dagli altri, una scommessa tra il rischiare di
essere traditi e l’aprirsi agli altri uscendo dalla solitudine.
Alla fiducia, sostiene, non
possiamo rinunciare, ma essa non è in contraddizione con l’autonomia, così come
il sentirsi “individuo singolare e differente da tutti gli altri, non significa
che possa fare a meno degli altri”.
L’autonomia è scegliere la
propria vita e quindi anche le persone a cui concedere fiducia.
Fiducia in se stessi e fiducia
nell’altro sono cioè elementi inscindibili così come le inevitabili ferite che
ne possano derivare.
L’Altro rappresenta così la base
di partenza dell’etica (“Accettazione
dell’altro” è il titolo del secondo capitolo) perché ci pone non soltanto
di fronte alla differenza con gli altri ma anche di fronte alla propria
alterità (Rimbaud scriveva: “Io è un
altro”).
Il ché vuol dire anche porsi
innanzi alle proprie debolezze e fragilità. E di fronte alle proprie paure.
La paura, come sostiene Montaigne, ha un duplice effetto: a
volte ci permette quasi di volare, altre volte ci inchioda al suolo.
Queste debolezze e fragilità si
ritrovano anche nella letteratura, basti pensare - tra i vari esempi - a Kafka (alle lettere indirizzate al
padre) e Pirandello (in particolare
in “Uno, Nessuno e Centomila”).
Dietro a queste paure non c’è
altro, per Marzano, che il mito del controllo (del proprio corpo, del proprio
futuro, del proprio tempo).
Naturalmente ciò non sarà
possibile e così qualsiasi alterità, anormalità e diversità tenderanno a essere
stigmatizzate e isolate.
Il processo di accettazione di se stessi, anche senza essere “perfettamente adatti”, inadeguati, è un processo che richiede la capacità di accettare la propria alterità e anche quella degli altri.
Il processo di accettazione di se stessi, anche senza essere “perfettamente adatti”, inadeguati, è un processo che richiede la capacità di accettare la propria alterità e anche quella degli altri.
Naturalmente ciò non implica un'accettazione incondizionata dell'esistente, anzi spesso è un processo che porta alla rottura con la tradizione.
Il terzo e ultimo capitolo del libro è sostanzialmente una ripetizione di questi concetti con argomentazioni leggermente differenti.
Marzano critica il concetto della
fiducia in se stessi, concepita come completa responsabilità (“Dovete
riconoscere che dipende solo da voi
stessi il fatto di vivere in un mondo come quello in cui vi trovate. Il
vostro stato di salute, le vostre finanze, la vostra vita amorosa, la vostra
vita professionale, tutto ciò è opera vostra
e di nessun altro”, M. Hernacki).
Questo atteggiamento comporta
infatti una doppia costrizione, da un lato spinge l’individuo a non farsi
influenzare dagli altri, dall’altro è sistematicamente sottoposto a giudizi di
una società che non tollera debolezze o mancanze.
In realtà la fiducia è una
scommessa umana, necessaria per l’esistenza della società (Simmel sosteneva che
era “una delle forze di sintesi più importanti in seno alla società”, così come
anche per Hume che poneva i
sentimenti al centro della ragione umana).
Ci sono filoni di studi che
tendono a considerare la fiducia legata alle conseguenze e agli aspetti
vantaggiosi che può dare a chi riesce a concederla (Gambetta, Hardin) per cui i soggetti coinvolti sono legati da
“interessi incastonati” (encapsulated
interests): do fiducia perché ho ragione di credere che il soggetto ne è
degno.
In realtà, in molte azioni quotidiane
non abbiamo gli elementi per giudicare tutte le qualità e le competenze che il
nostro interlocutore, conoscente o compagno dovrebbero possedere: ci affidiamo
a un medico o a un insegnante, senza cognizione, istintivamente.
Dare fiducia a qualcuno implica
che “il beneficiario possa esercitare un certo potere su di noi”.
Le società moderne, con la loro
tendenza al controllo, creano dei comportamenti compulsivi allo scopo di
neutralizzare tutto ciò che di inatteso (quindi pericoloso) possa succedere, in
un’escalation progressiva di paure e angosce.
In un contesto del genere, la
fiducia può rompere questo circolo vizioso, costringendoci ad abbandonarci
all’altro.
Nei contesti aziendali ciò è
stato compreso da tempo e difatti esistono diversi studi in tal senso, in
particolare sul management (fondamentali
quelli di Peter Drucker).
La lezione fondamentale è che solo
se si è in grado di stabilire delle relazioni di fiducia reciproca (fiducia in
se stessi e negli altri) si possono raggiungere degli obiettivi comuni e
generare un tutto superiore alla somma delle parti.
Michela Marzano è stata definita
- recita la presentazione dell’autrice nel libro - da “Le nouvelle Observateur” uno dei cinquanta nuovi pensatori “più
originali e fecondi del mondo”.
Onestamente mi sembra più che
un’esagerazione, una provocazione.
E’ abbastanza facile anche obiettare
alla sua tesi: nel mondo attuale più che la mancanza di fiducia nell’altro (che
indubbiamente esiste) il pericolo maggiore mi sembra risiedere proprio nella de-responsabilizzazione
personale, nell’incapacità (propria delle nuove “viziatissime” generazioni ma
non solo) di essere veramente autonomi e maturi.
E’ chiaro che non tutto dipende
dalla volontà umana (tanto che alcuni filosofi hanno ipotizzato l’amor fati come accettazione positiva
del proprio essere nel mondo, mi riferisco in particolare a Nietzsche ed R.W.Emerson) ma non sentirsi completamente responsabili
delle proprie azioni e porre l’accento soltanto alla fiducia da concedere agli
altri denuncia insicurezza, instabilità e scarsa autostima.
Come già osservato, mi sembra che
Marzano possieda più la leggerezza della psicologa che la profondità della
filosofa, perdendo così i vantaggi principali del suo alveo d’origine.
Credo però che, tutto sommato,
meriti "fiducia": una scommessa che potrà portare buoni frutti.
Giuseppe Savarino