"Piazza d'Italia", l'esordio di Antonio Tabucchi

Piazza d'Italia
di Antonio Tabucchi
Feltrinelli, 2001
(prima edizione Bompiani, 1975)
pp. 152



- Mamma, oggi non c'è niente da mangiare.
- Fa bene agli occhi, rispondeva l'Esterina.
Per lo  spesso niente crebbero con gli occhi bellissimi, grandi d'acqua.


Un epilogo, tre tempi e un'appendice: questa la struttura del primo romanzo - o meglio, "favola", secondo l'indicazione dell'autore stesso - del grande scrittore scomparso proprio quest'anno.
Scritto nel 1973 e pubblicato due anni dopo, il libro percorre la storia d'Italia dalla proclamazione dello stato unitario sino all'avvento della Repubblica, procedendo secondo il punto di vista di chi la Storia, piuttosto che farla, la subisce.

Protagonisti delle vicende narrate sono diverse generazioni di una famiglia di proletari, dapprima anarchici poi comunisti, dai nomi evocativi e altisonanti quali Quarto, Volturno, Asmara, Garibaldo, quest'ultimo assurto addirittura a una sorta di patronimico, utilizzato come soprannome e "marchio" di identità familiare.
La Spedizione dei Mille, le guerre coloniali in Etiopia e Libia, l'emigrazione nelle Americhe, le guerre mondiali, il fascismo: tutte queste pagine di storia vedono protagonisti, spesso loro malgrado, i componenti della famiglia e gli altri abitanti di quel "mondo piccolo" costituito dall'immaginario paesino toscano di Borgo.

Facile, e forse inevitabile, è il paragone con la Macondo di García Marquez. Eppure, se fra la saga dei Buendía e quella dei Nostri (potremmo chiamarli "i Garibaldi", dato che lo scrittore non ne indica il cognome) può esservi qualche similitudine, non altrettanto può dirsi per il parallelo fra Macondo, entità avulsa dal mondo reale, e Borgo, cittadina frutto dell'immaginazione ma perfettamente inserita nel contesto storico e spazio-temporale. Borgo non ha la pretesa né la necessità di essere metafora dell'Italia rurale, è un luogo vivo e pulsante, in cui fame, miseria e sfruttamento sono reali e tangibili.

La Storia si intreccia con le storie degli "ultimi" che vedono il mondo con realismo antiretorico, come denota il dialogo fra padre e figlio in occasione della sostituzione del monumento al Granduca di Toscana con quello a Vittorio Emanuele di Savoia:

- Chi sono quelli? chiese Plinio tirando suo padre per la manica.
- È Garibaldi che consegna l'Italia al re.
- E chi è Garibaldi?
- È l'eroe dei due mondi.
- E chi è il re?
- È il nuovo padrone.
C'è l'Italia vera - purtroppo - dietro i monumenti ai presunti Padri della Patria e i vacui discorsi sulla democrazia, l'Italia delle ingiustizie, degli interessi privati, della sopraffazione. Quell'Italia dei Gattopardi in cui tutto deve cambiare affinché nulla cambi, in cui chi davvero si ribella allo statu quo ci rimette la vita. Questo succede infatti ai vari "Garibaldi", uccisi dai guardiacaccia per aver preso una folaga nei terreni dei signori, dalle guardie regie per aver distribuito il grano ai contadini, dai carabinieri per aver guidato la protesta civile.
Mai però vi è rassegnazione in questi personaggi, sempre in lotta per sfuggire alla fame o per ribellarsi alle ingiustizie operate dai padroni e dai loro servi; in essi vi è una combattività così dignitosa da riscattare le miserie nazionali e che conferisce loro piena cittadinanza.

Un'opera prima eccellente, definita dallo stesso Tabucchi "una microepica italiana", strutturata in brevi paragrafi, quasi a ricordare i quadri di un cantastorie, che tuttavia riesce a mantenere alto il ritmo di lettura, grazie anche alla capacità narrativa dello scrittore, maestro nella costruzione di metafore e sicuro padrone di un linguaggio fortemente poetico. In "Piazza d'Italia" sono già presenti alcuni temi che in seguito caratterizzeranno Tabucchi - il sogno, il tempo, gli equivoci - ma soprattutto vi è una sincera e convinta tensione civile, che ricercando la giustizia sociale non può che porsi in antitesi ai fascismi di qualsiasi natura.


Stefano Crivelli