di Stefan Zweig
Mondadori, 1994 (I ed. 1941)
Traduzione di L. Mazzucchetti
pp. 364
€ 9,50
“Parlate e scegliete, dunque, o miei ricordi, al posto mio, e date almeno il riflesso della mia vita, prima che essa scenda nel buio!”
Questo sperava Stefan Zweig quando si accinse a scrivere la sua autobiografia Il mondo di ieri, Ricordi di un europeo, un anno prima di suicidarsi, nel 1942. Scrittore e traduttore austriaco ebreo, descrive in essa la società in cui visse - a tratti, con la meticolosità di uno storico - e il modo in cui ne venne influenzato e ispirato.
Zweig parte col raccontare della sua infanzia, trascorsa nell’opulenta Vienna della Belle Epoque. “Non fu un secolo di passione quello in cui io nacqui e fui educato. Era un mondo ordinato, con chiare stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta”, tutto doveri e rigidezza morale, scandito da noiosissime lezioni scolastiche e dal ticchettio di certi ordini familiari ai quali si sfuggiva solo andando a teatro o nascondendo la testa e la mente nei libri di artisti come Rainer Maria Rilke, scrittore che Zweig amò da liceale e di cui divenne amico. Sin da ragazzo, egli guardò alla letteratura come al suo unico futuro, e riuscì, finite le scuole, a pubblicare un’opera poetica sulla rivista Neue Freie Presse, di cui era redattore Theodor Herzl (famoso fondatore del sionismo). Per nulla esaltato da questo primo successo, si trasferì a Berlino dove frequentò l’università e approfondì, in solitudine e ritiro, la sua conoscenza letteraria. Per anni lesse, scrisse, studiò poco e viaggiò molto. Finita l’università, si trasferì a Parigi (la descrizione che egli fa della città è appassionata e piena di malinconia). Qui fece amicizia con artisti d’ogni genere, e non solo. Per tutto il libro, l'autore parla, in maniera particolarmente interessante, dei suoi amici scrittori; descrive il suo rapporto con Rodin, con Rilke, con Romain Rolland, con Luigi Pirandello e Antonio Borgese, con Richard Strauss (scrisse per lui alcuni libretti), con Sigmund Freud e Salvador Dalì. Zweig eccelle nelle descrizioni, soprattutto dell’animo e dell’aspetto, degli uomini “degni” di cui si circondava. Analizza benissimo il carattere di James Joyce, ad esempio, e lo fa senza spendere che poche attente parole e senza affrettare giudizi personali, semplicemente deducendo da un passo e da un muoversi del capo le leggi dell’universo che vibravano nella mente di quell’uomo allora semi sconosciuto. Non dice nulla, però, della sua prima moglie; ancor meno della seconda. Ciò che viene fuori da questo libro non è tanto il ritratto che un artista fa di sé stesso, quanto il ritratto che quell'artista fa di un continente poco attento a sfruttare le sue intelligenze e il fervore dei suoi cittadini. Se i primi capitoli del libro ci introducono nella capitale austriaca al culmine della sua bellezza, gli ultimi ci invitano a tavola con Hitler e con la sua follia. Follia di cui Zweig seguì l’evolversi e l’ingigantirsi, a partire dalla prima guerra mondiale. L’entusiasmo con cui accolse i primi anni del 1900 si spense con il 1914, ma tornò vivace dopo. A guerra finita, visse fiducioso, anche se tra gli stenti, in una vecchia casa di Salisburgo, mentre il suo paese veniva pian piano ricostruito; continuò a scrivere romani e biografie, a tradurre scrittori tedeschi, francesi, e a viaggiare. Possiamo dire che tutta la sua vita fu racchiusa in questo: nel viaggio e nel suo sentirsi cosmopolita. Purtroppo allo scoppio della seconda guerra mondiale, il cittadino del mondo divenne un apolide. Egli fu costretto a provare
“quell’orribile condizione dell’essere senza patria, impossibile a spiegarsi a chi non l’abbia provata su sé medesimo, quel senso esasperante di procedere ad occhi aperti nel vuoto, sapendo che dovunque si appoggi il piede, ad ogni istante si può essere ricacciati indietro”.
Tanta l’angoscia, la recriminazione, l’inquietudine. Gli ultimi capitoli dell’opera sono pervasi dall’orrore di un uomo e di un popolo che si vede privato di tutto: dei propri diritti, dei beni conquistati in tanti anni di lavoro, della libertà intellettuale, del futuro. Zweig è uno dei tanti scrittori che vede i suoi libri ardere al rogo, e uno dei pochi lungimiranti che ha la prontezza di fuggire, prima in Inghilterra, poi, con l’ingresso in guerra del paese, a New York. Un uomo che come lui convinse Benito Mussolini a commutare in esilio la condanna al carcere di un medico coraggioso; un uomo che aveva trascorso giorni felici con esiliati del calibro di Maksim Gorkij e Benedetto Croce, cadde ferito dalla stessa sorte. E non seppe trovar salvezza in essa.
Scritto in uno stile elegante e piacevole, infarcito di emozioni e sentimenti sempre delicati, nostalgico eppure mai deprimente e sconfortante, questo libro sa riassumere come pochi un passato che ci appartiene, quel “mondo di ieri” che nessuno ha dimenticato, ma che ormai pochi possono dire d’aver vissuto.