Guida ragionevole al frastuono più atroce
di Lester Bangs
Minimum Fax, 2005
pp. 450
€ 17,50
(Traduzione di Anna Mioni)
Minimum Fax, 2005
pp. 450
€ 17,50
(Traduzione di Anna Mioni)
È necessario dir subito,
a scanso di equivoci, che la vera letteratura può trovarsi dovunque.
È spesso, non sempre, nei testi citati dai manuali di liceo, certo,
ma è anche (soprattutto?) altrove. Estremizzando un po', può
benissimo esser scovata nei ricettari di cucina o nei libri di
ornitologia. Figurarsi se non può fare bella mostra di sé in
scrupolosi servizi su dischi e gruppi rock.
Lester Bangs è
unanimamente considerato uno dei massimi critici musicali, giudizio
positivo ma limitante. Al momento, ed è un problema non da poco, del
rock se ne scrive. Ovvero si cristallizza il flusso di note, di luci
e distorsioni in una sequenza di parole che, per quanto sinuosa e
musicale, è notevolmente
distante dalla musica cui si riferisce. Tra “Heroin” e le
definizioni che un critico può darne c'è un abisso non inferiore a
quello che c'è tra un economista e un paracarro (no, d'accordo, c'è
un abisso molto maggiore).
Dunque,
chi scrive di musica deve saper scrivere. Bangs sa farlo benissimo, e
se si accetta l'idea – per molti ostica e priva di senso, anche se
in pochi sono disposti ad ammetterlo – che l'analisi di generi e
gruppi non sia, o possa non essere, altra cosa rispetto alla
letteratura, possiamo annoverarlo tra i migliori scrittori
statunitensi. Greil Marcus, nell'introduzione alla Guida
ragionevole al frastuono più atroce, antologia dei migliori
scritti del critico e musicista, centra il punto con
efficacia: «Forse
questo libro chiede al lettore di essere disposto ad accettare il
fatto che il miglior scrittore americano sapesse scrivere quasi
esclusivamente recensioni di dischi».
C'è
una densità di pensiero rara, in queste righe, ed è un pensiero
superbamente espresso in uno stile colloquiale, serrato, un quattro
quarti elettrico con svisionate acide. I grumi di riflessioni,
gettate sulla pagina con l'apparente facilità di chi scrolla la
cenere di una sigaretta in una notte di bagordi, si condensano
intorno ad alcune tematiche che sono, di fatto, la quintessenza del
rock inteso come fenomeno sociale. Dei giudizi sui singoli concerti o
sugli album non è il caso di dire in questa sede.
Bangs
è un fucile puntato contro lo straripante ego delle rockstar e la
loro arrogante pretesa di farsi acclamare da un pubblico disposto ad
accogliere come oro colato qualsiasi rantolo posticcio da divo che
predica l'apocalisse. È un fucile puntato che prende la mira e
centra perfettamente tra l'applauso in onore di tutto quanto è
accessorio (il piglio, la fama, le luci) e l'incapacità di mettersi
a nudo per timore di sgualcirsi il colletto inamidato dell'abito di
scena.
Il
rock, quello ben fatto, è arte. E l'arte non ha bisogno di essere
illuminata dall'autore che si liscia le piume compiacendosi di aver
prodotto un tale capolavoro, o che al contrario si atteggia a vittima
sacrificale di un mondo destinato all'implosione. La musica deve
brillare di luce propria, così come la letteratura, il cinema, il
teatro. Sembra la banalità delle banalità, probabilmente lo è, ma
fatto sta che la realtà continua a provarci quotidianamente che
questo messaggio non è passato, o è passato e non è stato accolto
per la deleteria ricerca di eroi che troppo spesso ostacola la
salutare fruizione della musica. I miti non servono, tutt'altro:
«È stupido avere un eroe, in primo luogo, e in generale è un blocco per qualsiasi cosa uno potrebbe voler realizzare per conto proprio. In più, parte dell'euforia che si prova nell'ammirare qualcuno per i suoi meriti artistici deriva proprio dall'avercela con lui perché non è mai all'altezza delle tue aspettative. E poi tutta quella gente adora essere maltrattata, è peggio dei professori universitari: quindi l'unica cosa che resta da fare è diventare nichilisti fino in fondo e fare a brandelli tutti quelli che avete sempre rispettato. Che vadano pure affanculo!». (p.252).
Fatevi
un giro sulla giostra del rock: avrete vertigini e senso di nausea,
un po' di brividi causa contatto ravvicinato con le “celebrità”
e qualche lampo di flash a colpirvi gli occhi. Sì, ma la musica
forse l'avvertirete appena. Lester ha la lucidità che serve per
cogliere nell'ammasso indefinito che chiamiamo rock il rock vero, di
isolarlo e di provare ilarità e disgusto per tutto quanto rimane al
di fuori della benefica selezione.
È
un approccio semplificante e una rasoiata contro chi tradisce
l'originario irrefrenabile impulso che rimanda alla libertà, alla
voglia di evasione e alla liberatoria rottura di gabbie sociali.
A chi costruisce con ambizione eccessiva e pretenziosità
sovrastrutture di ogni tipo su pochi accordi che dovrebbero incarnare
un grido – di rabbia o di gioia ma pur sempre un grido e non un
sistema di equazioni con effetti speciali – e poi un ballo, e poi
una festa. Può darsi che tutto crolli, che il mondo sia sottosopra e
il futuro si lasci scorgere poco e male, ammesso che esista, ma non
per questo la festa, sottoforma di funerale o di party con palloncini
colorati, deve perdere la sua anima. Insomma, la razionalità non può
aver luogo quando sono un'erezione sguaiata o un cuore a pezzi a
urlare che, cazzo, la vita a volte è una merda ma ci si può cantar
sopra, o dentro, e fuck everyting.
Oh yeah.
Iggy
Pop, scrive il critico nel servizio “Iggy Pop: una fiamma ossidrica
in versione sadomaso”, è sì una sorta di bambino sguaiato che
sbercia e si contorce (magari ricoperto di burro d'arachidi, questo
lo dico io, ok, ma giuro che è vero) e incanta i presenti coi guizzi
dei suoi muscoli, ma è soprattutto un ragazzo che prova un dolore
genuino e che sa esprimerlo senza voltare le spalle al sentimento,
senza troppo riflettere sulle modalità con cui la sua musica viene
alla luce. Questo è solo uno dei
tanti esempi positivi su cui il critico posa lo sguardo.
A
proposito di “Wild Things” dei Troggs si leggono parole che
condensano benissimo quanto detto fin qui:
«La gente è troppo cosciente di ogni singolo gesto creativo compiuto nella propria vita di infinite possibilità e di amichevoli carinerie, per riuscire a produrre qualcosa che sia fuori da tutti i contesti o anche solo una semplice espressione di qualcosa che non abbia ramificazioni reali, o almeno non ne abbia nessuna che sia stata messa lì consapevolmente dal creatore». (p. 120).
L'acume
e l'autonomia di pensiero si evidenziano poi, ad esempio,
nell'analisi di alcune tendenze presenti nel nascente movimento punk,
di cui viene ben scissa l'apparenza dalla sostanza (i punk inglesi
erano docilissimi agnellini, in realtà) e di cui è messa in rilievo
l'attitudine deleteria a interiorizzare la rabbia assicurandosi
conati di vomito con poche probabilità di modificare in meglio la
società contro cui ci si accanisce: «Vedi, caro lettore, molto di
quello che viene spacciato per punk consiste semplicemente nel dire
io faccio schifo, tu fai schifo, il mondo fa schifo e chi se ne
frega, il che in un certo senso, ehm, uh, non basta» (p.
316). Ed è per questo motivo, per inciso, che viene accolto con
felicità il successo dei Clash, gruppo capace di trascendere i
limiti imposti dal “No future” più nichilistico e di
mostrare una malcelata sensibilità per certe “tematiche sociali”
(anche se probabilmente questa definizione sarebbe stata salutata con
un “fuck you” strascicato da parte di qualunque musicista
punk, Clash compresi).
Ancora,
Guida ragionevole al frastuono più atroce contiene
quarantadue pagine di approfondimento su Lou Reed. A dirla così non
sembra sia una cosa eccezionale: leggetele e vi accorgerete che ben
pochi scrittori, e non parlo soltanto di critici, riuscirebbero a
scandagliare così profondamente un contrastato rapporto di amore
odio con una così riuscita commistione di ironia e intelligenza (il
primo servizio si apre con queste parole: «La scorsa primavera
uscivo con una ragazza che faceva la road manager di un gruppo rock.
Quando lei ha detto ai tipi che avevamo una storia, le hanno
risposto: “Ma va', Lester vuole solo succhiare l'uccello a Lou
Reed”» (p. 245), basta per capire che dovrebbe esser letto
all'istante?).
Ora,
può benissimo darsi che il rock non vi interessi. Può anche non
piacervi la musica, si vive lo stesso e non è un reato, checché ne
dicano quelli che blaterano senza tregua sulla necessità di
ascoltarla per esser considerati umani. Gli stessi che poi non
l'ascoltano, ché blaterare porta via tempo e fatica e non avrebbero
la giusta concentrazione per la bisogna. Comunque, qualsiasi siano i
vostri gusti, questo libro dovreste leggerlo. Non importa se parla di
gruppi e di dischi. Parla anche di molto altro, tra le righe e non
sempre tra le righe: vi si trovano ricordi personali, aneddoti
divertenti e via dicendo, ed è scritto bene quel tanto che basta per
stroncare sul nascere le aspirazioni di chi si immagina un futuro da
scrittore e grazie a Bangs capisce che forse è meglio cambiare
obiettivo.
Il
succo è: leggetelo e poche storie!
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«Uno, chiunque dovrebbe capire che tutta questa “arte” e questo “bop” e questo “rock'n'roll” eccetera sono una presa in giro e un errore, sono un mucchio di sciocchezze, quindi smettete di trattarle con serietà o rispetto e ammettete il fatto che non è altro che un giocattolo costoso da sbattere come si vuole nella stanza dei bambini […]. Il primo errore dell'Arte è supporre che sia una cosa seria. Qui potrei anche fare lo stronzo e dire che “Niente è vero; tutto è permesso”, il che in effetti è vero, ma la gente potrebbe farsi delle idee sbagliate. La cosa più vera è che non si può asservire un idiota. Non c'è verso di irreggimentare la fifa, o di farla camminare in linea retta. E da qui in avanti, dato che abbiamo l'automazione computerizzata et similia, non c'è niente di meglio da fare che andare alla Festa e RESTARCI» (p. 128).
«Sì, sì, devi farti una reputazione essendo soprattutto sincero e… insomma, molto spietato» (Philip Seymour Hoffman nei panni di Lester Bangs, in “Quasi famosi”).