di Adrienne Sharp
Neri Pozza, 2010
trad. di R. Vitangeli
€17,50
pp. 413
Potere e impotenza: questo il connubio che fa da premessa all’ultimo tragico romanzo di A. Sharp. “La ballerina dello zar” è la vicenda, o meglio “l’agiografia”, narrante vita, morte e “miracoli” dell’ultimo zar Romanov, Nicola II, quasi un dio e poi, improvvisamente, nessuno. E’ la storia di un imperatore che è anche marito e amante e, contemporaneamente, padre di cinque figli e padre di una nazione (batjuska), composta di molti popoli, di un impero in cui anche le minoranze hanno una voce ma una voce spesso messa a tacere da un’aristocrazia lontana, intrappolata nella prigione dorata delle diciannove corti di San Pietroburgo. Gli errori, i contrattempi, le strategie e le variabili mal ponderate della politica di potenza zarista vengono riportate, prive di abbellimenti, nella crudezza del loro fatalismo, ma dalla prospettiva, necessariamente parziale, della sua amante, la prima ballerina del Mariinskij, Mathilde Felixnova Kschessinska.
E se ho parlato di fatalismo, l’ho fatto proprio per quell’afflato mistico in cui si proietta la vita di corte, disposta a condividere credenze non lontane da quelle dei comuni contadini: la nascita di Nicola II sotto gli infausti auspici della carta di Giobbe preluderebbe ad un percorso pieno di sofferenza ed ostacoli; la prima apparizione della futura imperatrice, Alexandra di Assia- Darmstadt, nel corteo funebre del precedente zar, Alessandro III, un presagio di rovina che la principessa anglo- tedesca avrebbe portato con sé; uno specchio che si rompe durante il parto della zarina prelude alla disgraziata malattia, l’emofilia, che affliggerà lo zarevic Aleksej.
La superstizione giunge a palazzo con le “dame nere” del Montenegro e pervade gli animi avidi di magia, la stessa che la nobiltà ricerca nelle soirée a teatro, animate dai balletti di Petipa e Djagilev e musicati da Čajcovskij.
Dal Bol’shoj, dove la famiglia imperiale viene accolta con l’inno “Dio salvi lo zar”, la narrazione spazia verso le province della Polonia, della Crimea e della Georgia fino alla lontana Manciuria, teatro di quella guerra russo- giapponese in seguito alla quale il popolo affamato preparerà una marcia disperata e senza risultati sulla capitale.
D’altra parte, spiega “la piccola Mala”, il titolo del balletto in cui si esibisce la prima ballerina è significativamente La vita per lo zar e non la vita dello zar per il suo popolo! E, nonostante tutto il sangue fatto scorrere a causa di un solo uomo, non si può non provare compassione per colui a cui, sin da bambino, fu inculcato di essere un dio, ma un dio, questo batjuska, simile a Crono, destinato ad essere rovesciato dai suoi stessi figli, un uomo che ebbe nelle sue mani potere su tutto e, pur tuttavia, fu condannato all’impotenza davanti a ciò che più gli stava a cuore: la salute fragile del figlio, l’impossibilità di salvare la propria famiglia trucidata senza un processo nello scantinato della casa dove erano stati esiliati a Ekaterinburg. Mathilde Kschessinska racconta la Storia facendo trasparire il lato più umano dei suoi personaggi, le passioni che si agitano dietro le scelte di ogni uomo di Stato, i desideri non dissimili da quelli degli uomini comuni.
La complessità bizantina della vita di corte, i personaggi, spesso loschi, che intrecciano il destino di intere nazioni alle loro personali trame di potere, (dal misticismo inquietante di Rasputin all’ipocrisia del principe Kerenskij a capo di un instabile regime provvisorio, dal tentativo ultrareazionario zarista di sciogliere la Duma al marxismo strumentalizzato da Lenin), determinano la fine di una dinastia che fu al potere per trecento anni rivelandone le debolezze, fino al momento in cui le “Parche”, in nuove vesti bolsceviche, non ne recideranno il filo sottile. Non sembra neppure strano che a narrare i “dietro le quinte” delle cospirazioni al Palazzo d’Inverno sia una donna di teatro, una donna che ha dovuto recitare tutta la vita e dietro la quale si cela un figlio illegittimo attorno al quale si giocano l’idillio della concubina e le sorti dell’impero. Il mondo della politica e quello dello spettacolo non sono distanti, e al contrario, quasi complementari: entrambi appartengono al regno della finzione, dell’inganno, del possibile.
La differenza fondamentale è che, se il teatro può garantire un lieto fine, fosse anche per mezzo di un espediente come un deus ex machina, nel mondo reale ogni azione porta con sé conseguenze la cui entità non è sempre prevedibile e che, talvolta, può comportare l’irreparabile, la fine di un mondo, di un’era. Nessuno dei sopravvissuti alla persecuzione delle Armate Rosse fa ritorno nella Russia sovietica finita la guerra civile, quasi a dire che una patria non è solo un luogo nello spazio ma ancor di più un luogo nel tempo. Come scrive la poetessa Cvaeteva, “non si può tornare in una casa rasa al suolo”. E se non c’è una casa dove tornare forse certi fantasmi restano accanto a noi, ci raccontano le loro storie piene di contraddizioni e, attraverso di esse, ci ammoniscono.