di Mark Haddon
Edizione originale Einaudi, 2003
pp 247
16,00
Edizione di riferimento Gruppo editoriale l’Espresso, 2010
“Lo strano caso del
cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon è una di quelle narrazioni che
risucchiano, che tengono incollato al libro sia il lettore incallito sia quello
occasionale, in barba a chi arriccia il labbro e alza il sopracciglio di fronte
ad un romanzo che si fa leggere tutto d’un fiato. Quello che cattura e colpisce
allo stomaco è il punto di vista. A raccontare la storia è Christopher, ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo savant. Christopher ha l’intelligenza di
un computer, sa fare a mente calcoli complicatissimi ma è del tutto
impreparato, ingenuo e indifeso, di fronte alla vita. Con questi suoi pochi mezzi, intelletto
sviluppatissimo ed emotività fragilissima, dovrà risolvere un giallo, l’incomprensibile
uccisione di Wellington, il cane della vicina. Si tufferà nell’investigazione
con lo stesso spirito razionale e analitico del suo amato Sherlock Holmes ma l’indagine
prenderà una piega imprevista, lo costringerà a scavare anche nella propria
vita, nei rapporti fra suo padre e sua madre, a venire a patti con l’assenza
della figura materna, ad affrontare rischi e a discendere negli inferi
metropolitani per poi risalire alla luce delle stelle.
“E quando l’universo avrà terminato di esplodere, tutte le stelle rallenteranno la loro corsa, alla fine si fermeranno e cominceranno di nuovo a cadere verso il centro dell’universo, come fa una palla gettata in aria. E allora non ci sarà più niente a impedirci di vedere tutte le stelle del mondo perché si avvicineranno, sempre più velocemente, e noi capiremo che il mondo presto sparirà, perché quando guarderemo il cielo di notte non ci sarà più il buio ma soltanto lo splendore di luce di milioni e milioni di stelle, tutte stelle cadenti.” (pag. 23)
Ciò che afferra e
cattura non è, ripetiamo, la storia in sé, bensì la personalità affascinante e
straordinaria di Christopher. Un Asperger è una monade senza finestre, chiuso
in un mondo ego centrato, in un cerchio di cui è prigioniero e nel quale non fa
entrare nessuno, tenendo a distanza ogni altra creatura umana. Si sente
superiore a tutti, non riesce nemmeno a concepire che anche gli altri abbiano
una “mente pensante”. Christopher sta solo sul cuore della terra, come direbbe Quasimodo,
non ama la confusione, detesta essere toccato, dice sempre la verità, prende
tutto alla lettera, nota ogni particolare al punto che la sua mente,
sovraccarica di stimoli e dati da analizzare, va in tilt ed egli soffre
travolto dall’ansia, dalla paura, da una solitudine cosmica.
“Avrei voluto dormire così da non dover essere obbligato a pensare, perché l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era tutto quel dolore che provavo perché non c’era spazio per nient’altro dentro la mia testa, ma non potevo andare a letto e non potevo far altro che rimanere seduto dov’ero e non c’era nient’altro da fare se non aspettare e continuare a soffrire.” (pag.204)
Haddon usa un
linguaggio mimetico del modo di pensare e di esprimersi del protagonista, un
linguaggio artificiosamente semplice e ingenuo che strizza l’occhio al
lettore e sconfina nella poesia.
“Mia madre però fu cremata. Questo vuol dire che è stata messa in una bara e bruciata e polverizzata per poi trasformarsi in cenere e fumo. Non so cosa capiti alla cenere e non potei fare domande al cimitero perché non andai al funerale. Però so che il fumo esce dal camino e si disperde nell’aria e allora qualche volta guardo il cielo e penso che ci siano delle molecole di mia madre lassù, o nelle nuvole sopra l’Africa o l’Antartico, oppure che scendano sotto forma di pioggia nelle foreste pluviali del Brasile, o si trasformino in neve da qualche parte, nel mondo.” (pag.53)
Patrizia Poli