Abbiamo imparato a conoscere e amare l'umbratile genio di Giorgio Manganelli (1922-1990) attraverso le sue prove di scrittura più note: l'avventura catabatica di Hilarotragoedia, l'arguta produzione saggistica, i "cento piccoli romanzi fiume" di Centuria; resta da scoprire, tuttavia, un ampio mondo di testi inediti e meno noti - basti pensare alla preziosa raccolta d'inediti Ti ucciderò, mia capitale, curata da Salvatore Nigro e di recentissima pubblicazione (Adelphi, 2011) - tra i quali, certamente, la produzione lirica occupa un ruolo obliquo, se non marginale, ma certo interessante per indagare non soltanto lo scrittore, ma anche, sorprendentemente, l'uomo che dietro la scrittura si è spesso nascosto. Sembra che Manganelli, plateale codificatore della «letteratura come menzogna», abbia scelto di consegnare a questa silloge di versi (giovanili, come per Gesualdo Bufalino, e i cui manoscritti autografi sono tutt'ora in possesso della figlia dello scrittore, Lietta Manganelli) una primitiva cifra di «verità» (vd. l'ottima l'ottima introduzione di Daniele Piccini): certamente autobiografica, come sembrano gridare le poesie dedicate all'inquieto amore adulterino per la giovanissima Alda Merini (Ti paragonerò dunque); e letteraria, sopra ogni cosa, con l'enucleazione di tutte le ossessioni scatologiche e dissacranti che torneranno costantemente nella produzione successiva, specie nelle grandiose, nevrotiche forme barocche di Hilarotragoedia. Già i versi del '53-'55 pullulano di ripetitivi motivi: escrementi, genitali, unghie e intestini diventano connotati (spesso mostruosi) dell'io lirico di fronte al fantasma dell'amore non corrisposto, della «denegata fregna», nel continuo rovello esistenziale tra la senescenza del desiderio e l'igienico risarcimento garantito dalla morte, di fronte a un dio la cui unica «onesta» creazione è l'inferno.
Edizione di riferimento: Giorgio Manganelli, Poesie, a cura di Daniele Piccini, Crocetti 2006.
Io mi divido
in giacca e calzoni e cintura
e ancora mi disgiungo
in cravatta e camicia
e mi scindo in cranio, in polmoni,
in visceri e pube,
e mi distinguo
in ogni cellula
che senz'amore s'accosta
ad altra cellula.
Così, casualmente, sussisto:
poi chiedo in prestito
la forza che congiunge
l'uno all'altro i miei volti possibili
all'improvviso sacramento
d'una chitarra,
al riso dell'amico,
allo squillo consueto del telefono,
nell'attesa distratta
d'una voce che perdoni la mia spalla,
la mia gamba, la mia dolce cravatta:
nell'oziosa attesa
del sacramento della nascita.
Conosco la pace del pensoso dinosauro,
la coerenza delle zanne della tigre:
dove non c'erano parole
dove non ci sono parole,
nel centro del centro del centro
delle cose sorde, vitali, sanguinose,
dove si enumerano stomaco,
unghie, genitali,
intestini lunghissimi, zampe,
e le lacrime sono lacrime
per sangue che esce da carne lacerata,
per l'orrore forte della morte,
dove si redigono cataloghi
di urli, di minacce, di carne,
del male carnale solamente
dove non c'è amore né lussuria,
ma la voglia gagliarda della vita,
il centro dell'inguine
che matura insensato nelle cose.
Abbiamo tutta una vita
da NON vivere insieme.
Sugli scaffali di Dio
s'impolverano i gesti possibili:
le mosche cherubiche insozzano
le nostre carezze;
stanno appollaiati come gufi
i sentimenti impagliati.
"Merce inesitata" - griderà l'angelo d'ottone -
dieci casse di vite, di possibili.
E avremo anche una morte da morire:
una morte casuale, innecessaria,
distratta, senza te.
Io non ho prova della mia esistenza
se non per questo
dolore continuo dell'orecchio,
una lettera d'amico,
il gusto denso della birra
contro le gengive.
Fuori dal sigillo
della paura ininterrotta
non ho altro indizio
della mia continuità.
da Appendice I
Quando ti scopri a te stesso imprevedibile
o, innamorato, esperimenti
gesti solenni, inevitabili
che propongono nuovi lineamenti:
o squassa una danza arcaica
le membra inveterate,
o scelta d'una femmina;
in vite altre da te, a te sottratte
individui il ritmo
che la tua vita squadra
in tempi ragionevoli;
non ti appartieni più, sei
totalmente morto: e sei salvo.
Di meteorologia
noi non sappiamo niente,
assolutamente:
ignoriamo il tempo delle semine,
e quando s’accoppiano
i maschi con femmine
in guisa che accompagni
la volontà delle stagioni:
ignoriamo i segni
per cui si scelgono le terre,
che riesca fecondo e certo
il gesto della semina.
Per cui noi si vive a caso
per lo più disgraziatamente –
ma senza malizia delle cose.
L’errore fu nascere sotto lo Scorpione,
o in opposizione di pianeti infausti:
o forse l’errore fu nascere, nient’altro.
Ci insegnarono qualcosa:
che il sale rovesciato porta male,
che di venere e di marte
non si sposa e non si parte;
ma per cinque giorni
non ci assistettero dogmi né proverbi.
Sempre ci sgomentò al sopraggiungere
il tuono d’una nascita,
e giunse a noi imprevedibile la morte.
Cercheremo, un giorno, il mago, il guaritore,
la donnetta che legge nelle carte?
Ci verrà meno
la disperazione onesta?
da Appendice IIa
Ogni cosa permane -
ogni cosa rimane -
ogni cosa sussiste -
ogni cosa resiste -
guarda niente è mutato, immagino da che tu partisti
tu, femmina, mutande, mestrui,
tu, io, morremo, morremo
la vecchiaia ci singhiozza
nella spina dorsale,
la gomma attorno agli occhi,
moriamo, morremo, andiamo
a puttane, finiamo in niente,
consumati, cenere, cenere
ci dimentichiamo
c’è sul calendario il giorno
che non ricorderò il tuo nome
c’è il giorno dell’addio
più integrale
quando di tutto il tuo furore
nell’utero, il mio amore
resterà solo una storiella un poco
sudicia, cosa per adolescenti.
Ci amammo, ugh! ci amammo
Desideravo vederti:
desidero la fantasia dei tuoi capelli
a inaugurare grida
di libertà in ore troppo lente; la rivolta
dei tuoi polsi terrestri
che muovono inizi di bandiere,
e accusano l’indugio, la disperazione
cauta, il tempo.
Mi occorre l’urlo d’uno sguardo
ed oltre la violenza del tuo esistere
io esigo il gesto d’un tuo riso.
Ti paragonerò dunque
amore mio, mio amore
ad un giorno estivo, o trepida rosa
(una rondine sarebbe forse
più acconcia, o una farfalla?)
O non piuttosto, amore mio, mio amore
ti farò simile al tetano
che inchioda le mascelle,
alla lebbra paziente
che accima la carne indifesa
o all’ulcera, fiore perplesso,
o al tumore, autonomo individuo,
che cresce nel corpo
per verginale gravidanza?
Mia rosa mostruosa,
delicata, indolente paranoia.
da Altre poesie
Liebesgedichte fünf
I
C'è la questione delle partenze:
un capostazione di costole
un esemplare di scheletro
da studio; la locomotiva
muore in un binario
perde le dolci budella -
camminiamo in un mare di orina.
II
A fare una buona partenza
occorrono: fazzoletti,
orari ferroviari, frastuono
di rigatino (i facchini),
un giornale con notizie improbabili,
una birra vuota, un bimbo che piscia,
e un certo numero di frecce direzionali:
inferno, garitta degli angeli
mortali, palude, cimitere.
Occorrono anche lacrime
per pulirsi la fuliggine,
dimenticare le immagini del membro.
(...)
da confrontare con analogo passo dell'Hilarotragedia:
...si vedano le partenze, gesto di simbolica terribilità, fosse anche partenza tranviaria, simbolo didipartita, decesso, scomparsa, non essere, non essere mai nati: il che comporta frastuono assordante di membra litigiose, eversione di cuoi capelluti, in luogo folto di gravi, sordidi e insolenti facchini, strilloni nunzi di cattvanti sventure, fastosi ammiragli ferroviari, commodori dei bagaliai; luogo tragico e indecoroso, confortato da zaffate di orina infantile, e sciami disingulti con magliette a strisce; patetico di sesso peloso e lamentoso (sempre, sempre gli amanti si separano); epilessia di fazzoletti, esplosione discinetica di dita crocchianti agli addii; allusivo imbroglio di orari, scambi, ritardi, mutati marciapiedi di arrivo e partenza. Adipe in corsa, sferzato sullenatiche di nonno dalla pronuncia dialettale degli altoparlanti. A farne uno buono, di questi addii, si consigliano: giorno di confusione inetta eclamorosa, cosí che il dolore venga gomitato, assordato, svillanato da tanti altri indaffarati dolori sgomenti sudaticci, sofferenze callose, querule, bavate. Il saluto risulti pertanto, rite, insincero (lo sarà in ogni caso, anche se tornato a casa ne morrai di dolore), goffo, malfatto, crudo, anche villano, incompleto, insultante, distratto (ne morrai, ne morrai); cosí che la persona diletta si raggrinzi e impiccolisca, si rifaccia feto (vestito di rosa), doppi il proprio concepimento, e infine scompaia in una aureola di parolacce, sporcizia,gridate allusioni sessuali, luci dimezzate, muco di infanti, cravatte allentate, berci di capostazioni, trascorrere di finestrini con gente che va al cesso. Esercizio spirituale, grado primo dell’addio.
I
Scrivi, scrivi;
se soffri, adopera il tuo dolore:
prendilo in mano, toccalo,
maneggialo come un mattone,
un martello, un chiodo,
una corda, una lama;
un utensile, insomma.
Se sei pazzo, come certamente sei,
usa la tua pazzia: i fantasmi
che affollano la tua strada
usali come piume per farne materassi;
o come lenzuoli pregiati
per notti d’amore;
o come bandiere di sterminati
reggimenti di bersaglieri.
II
Usa le allucinazioni: un
ectoplasma serve ad illuminare
un cerchio del tavolo di legno
quanto basta per scrivere una cosa egregia -
usa le elettriche fulgurazioni
di una mente malata
cuoci il tuo cibo sul fuoco del tuo cuore
insaporiscilo della tua anima piagata
l’insalata, il tuo vino
rosso come sangue, o bianco
come la linfa d’una pianta tagliata e moribonda.
III
Usa la tua morte: la gentilezza
grafica gotica dei tuoi vermi,
le pause elette del nulla
che scandiscono le tue parole
rantolanti e cerimoniose;
usa il sudario, usa i candelabri,
e delle litanie puoi fare
un bordone alla melodia - improbabile -
delle sfere.
IV
Usa il tuo inferno totale:
scalda i moncherini del tuo nulla;
gela i tuoi ardori genitali;
con l’unghia scrivi sul tuo nulla:
a capo.
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