Ogni poesia, proprio perché intesa come ricerca di una verità, di per se stessa è sperimentale.
Così Roberto Roversi (1923-2012) rispondeva a un'intervista su Nuovi argomenti. Un intellettuale poliedrico nel suo impegno politico, letterario e culturale: di formazione filosofica, è stato attivo nella lotta partigiana e, specialmente, nelle querelles ideologiche degli anni Sessanta e Settanta; insieme a Pier Paolo Pasolini ha fondato la rivista Officina; e, successivamente, la bolognese Rendiconti; è stato scrittore per il teatro, paroliere per importanti gruppi della scena musicale italiana (Lucio Dalla, gli Stadio); per quasi settant'anni, titolare di una libreria antiquaria, la storica Palmaverde. Ma, soprattutto, Roberto Roversi è stato un poeta.
Una poesia, la sua, che non sarebbe mai fiorita senza un intenso e consapevole engagement intellettuale, che ha trovato la sua migliore espressione nella forma del poemetto a sfondo ideologico-morale e in scelte di provocatoria distribuzione editoriale (sullo scorcio degli anni Sessanta, le sue opere erano stampate su ciclostilo e distribuite senza la mediazione di un editore).
La poesia di Roversi ha una forte carica passionale, che le deriva dalla volontà di unire al rigore freddo e intransigente dell'intellettuale di sinistra lo stato d'animo della lotta rabbiosa e della sconfitta. Questo rapporto conflittuale con la realtà, fra accenti espressionisti, ragionamenti sulla cronaca e denunce perplesse, assume nei migliori testi di Roversi il tono deluso di un'utopia negata.(J. Sisco, Dopo i classici. Poetiche e poeti, in La letteratura italiana. Il Novecento, II. Dal neorealismo alla globalizzazione, a cura di E. Raimondi e G. Fenocchio, Bruno Mondadori 2004, p. 185)
Tra le raccolte più rappresentative di Roversi, Dopo Campoformio (1962) enuncia, sin dal titolo - che rievoca un'esperienza traumatica per l'intelligencija italiana tra il XVIII e il XIX secolo, la cessione di Venezia agli Austriaci firmata da Napoleone: si pensi allo scoramento dell'Ortis foscoliano - un clima poetico ben definito: quello della denuncia intellettuale di uno stato oppressivo, quello, stavolta, di matrice capitalista. Lo scrittore, per Roversi, e sopra ogni cosa il poeta, deve consacrarsi a una profetica, attiva intransigenza morale: un'idea costante in tutta la sua produzione, in cui l'inesausta ricerca formale non è che una spia della continua, mai sopita, ricerca di verità.
Roversi capì presto che bisognava stare ai margini della camera letteraria. Ai margini, non del tutto fuori. Non si concede lo scatto lirico se prima non ha pagato un consistente tributo di prosa e di prosasticità.(F. Fortini, Breve secondo Novecento, Lupetti 1998, p. 57)
Questo tributo, non immune ad alcuni preziosi barlumi di allusività letteraria ("ai margini, non del tutto fuori", abbiamo appena ricordato con Fortini), è particolarmente evidente nelle prove di Le descrizioni in atto (1970); riportiamo la Decima.
I.
Che età avevi quando irruppe il Medo?
II.
Il giuramento a lume di candela
nella cattedrale di Brunswick
davanti alla tomba
di Enrico l’Uccellatore (vedere a pagina ottanta)
con gli occhi azzurri e i capelli biondi, essi
e il pelo sul cuore…
III.
Una strada non c’è. C’è una strada (un fiume), c’è un
fiume
– credo che ci sia, è così – un profondo
fosso, una siepe, un fiore d’albero
sotto il giardino spappolato, c’è il pianto
di una bambina nuda col tracoma c’è
il sangue di un uomo per terra decapitato
la milza di un animale sul bancone di legno;
c’è il filo bianco (un rosso filo) che stende
dal labbro di chi parla fino a una casa laggiù;
una carta su cui il dito striscia con raccapriccio;
l’orgasmo della donna fra l’erba affumicata
da un vecchio incendio, un bombardiere che non si vede.
Vilipendio di istituzioni (di gravi legittime colpe).
Non c’è più l’eco, il suono non c’è, il percuotere
dell’ultimo dissenso, le voci
placate (finalmente?), i refusi scomposti;
ribolle un altro piombo per più degne canzoni
– la caratteristica del tempo è una misurata indifferenza,
tutto interessa un poco per brevissimo tempo,
ogni cosa muore, deperisce, sé consuma e sfoltisce
nel forno della memoria.
IV.
Dice Kant la disciplina del genio
(ossia l’educazione) è il gusto: gli ritaglia
le ali e lo rende pulito e costumato.
Il grande Kant, savio nella sua stanzuccia
di legno, con l’onda delle idee
che si scioglie in un silenzio ordinato
e sulle vie (deserte) lo zoccolo di un cavallo.
Ma questo, che siede anch’egli, è un uomo, nella casa
con moderati calori, in un quarto piano
di paese italiano, che è, che sarà? così lontano
dai rumori. Ah, non è costumato e polito. Non costumato,
è tutto dentro sbrecciato, pendente,
insolente, tenero e terso, muscolo
macellato in una sordida ignominia,
ingorgo meschino, è gramigna spersa secca
raccolta da una vecchiaccia che insacca.
Questo non sarà polito, eh no, costumato non è (le circostanze
non lo permettono), non è pulito – tutti sentono
sulla via lo zoccolo di una morte
passare alternando il suono con quello dello spazzino
(e la sua tromba). L’alba, all’alba, l’alba
– disegnare contro i vetri col fiato –
è, nello strizzarsi delle vene,
così distesa distante, la mano aperta, l’occhiaia
di questa giornata incerta nella scelta; stramazzerà
fra noi farneticando (presto, fra noi) di dolori antichi
e dei nuovi congegni. Ammonisce così riservata superba
a non perdere le occasioni (la vita è un fulmine nel
tempo)
– intanto una ragazza sulla gamba perfetta
nell’ambito di una stanza indossa la vestaglia
spenna se stessa nello scirocco ferito da una calza
irride alla varietà degli umori
agitata da una innocua speranza.
V.
Accendere una sigaretta (fumata dopo sei anni)
il potere agli operai e ai contadini
– si elidono a vicenda sopraffatti
da queste contraddizioni che non distinguono
fra la necessità e il bisogno, fra chi
(si può dire) di una corda che si sfilaccia
trattiene il bandolo e colui che esautorato esausto
si lascia colpire dal canapo alla faccia.
L’affare è grave e merita considerazione
Oggetto di ogni disputa, nel caldo della stanza
mentre fuori si apre al mondo
distrutto dall’acquazzone
e rigurgita una cloaca con la gola di vacca
e si fa notte fra i lampi
e una pietà di noi si distende sopra le forme immobili
(con noi) nell’attesa perfida dello spettacolo
– la consumata mente, l’usura, il sillogismo,
il calembour sul titolo di chi si compiace al caffè –
è
la fine del mondo, un’arca ribaltata,
sulle pianure le ossa della città
– allora tu dici che il momento del contrasto
si invera in una nuova necessità: (questo è il punto),
ognuno di noi che sediamo
sillogizza ma non opera, la disputa si fa arcaica
e tutti noi (il giro del dito è ampio)
degradiamo nella mistificazione.
Accendere una sigaretta.
Sono anni bui o sono anni nuovi?
Per la verità credo che il buio
sia il buio arcigno tetro gelido perfetto
che sia una luce nuova.
VI.
Ieri in via Andegari scura e stretta, raffinata via che conduce a
una foresta di simboli scalcagnati, la moglie incontro incontrai ho
incontrato di un compagno fucilato.
Stormiscono le foglie della memoria.
Con una testa di capelli rossi, in quelle case sporche di
fango o
dell’ottusa avidità borghese la spalla modulata dolcemente suonava.
La sua giovinezza (incantava) ancora.
L’ora del giorno, incerta un poco colma
o piuttosto il luogo distaccato dai rimorsi, in una incerta
ombra, distaccata dalla buriana ossessiva,
la giuliva felice voce di addio ciao
o R. che (un attimo)… dimenticato, al mio cuore…
Si possono dimenticare i morti per sempre.
Leggeri andavamo a braccio
i suoi capelli di fiamma disse sono sposata ho due figli
neppure un ritratto più, mi puoi capire
una gran voglia di vivere
questa città fa impazzire.
La provincia fa morire.
A notte ancora nella sua casa, fra i figli e il marito
nella casa a mezz’aria
sui rami di un albero fortunato di cristallo, verde.
Baciò me sulla bocca
perfida, e dolcemente, vicino alla porta.
Tutto scomparso, assopito, scancellato, annegato,
visi di uomini trapassati sbiancavano in polvere
non era vero più niente.
Laura Ingallinella