Riportando tutto a casa
di Nicola Lagioia
Einaudi, 2009
pp. 288
Ambientato negli anni ’80, la
storia di tre amici: Giuseppe, Vincenzo e la voce narrante, la quale dopo circa
20 anni ricostruisce le vicende obbedendo a un impulso che la porta nella città
natale, Bari, per rincontrare vecchie conoscenze.
E dunque assistiamo alla
rievocazione di quel periodo che, tra i lustrini e le paillettes del Drive In e
della televisione commerciale, viene oggi storicizzato come un decennio vuoto,
inutile, che altro non fu che l’inizio della fine (intendendo con “fine” quella
che molti vedono come un’odierna Apocalisse): insomma, in scala ridotta gli
anni ’80 han fatto la fine del Medioevo.
Si potrebbe definire Riportando
tutto a casa (Premio Viareggio-Rèpaci 2010) come un romanzo di formazione: il narratore, adolescente, racconta
l’ingresso nella vita di un gruppo di ragazzi, con i primi amori, le feste e le
trasgressioni, la vicinanza della malavita, e i problemi professionali e
sentimentali di genitori improntati alla ricerca del successo e dell’apparenza.
L’ambiente sociale in cui tutto accade è quello della borghesia benestante,
rappresentata da liberi professionisti come avvocati di successo e
imprenditori.
Nel romanzo ha un ruolo
importante il problema della tossicodipendenza, in particolare dall’eroina, che
ebbe il suo boom proprio allora: ci sono belle pagine, nella parte finale, che
ne descrivono la potenza distruttiva che annichilì le vite di tanti giovani.
Le belle pagine della parte
finale (circa un quarto), però, mi sento di dire che sono la parte migliore del
romanzo: i restanti tre quarti soffrono di un’andatura zoppicante. Perché?
Quello che, a mio parere,
rappresenta il problema fondante è la scrittura, che di conseguenza trascina
tutto il resto: Lagioia (1973) scrive bene, se per bene intendiamo una certa
armonia lessicale, di personalità, ricercata e scevra da soluzioni
preconfezionate. Scrive male se invece diamo il ruolo di primaria importanza,
che le spetta, alla sintassi: la sintassi, come gli arbitri, quando va bene non
la si nota: se inizia a procurare disagi nella lettura, forse per ansia da
prestazione, vuol dire secondo me che non funziona. Lagioia, non so se
inconsapevolmente o meno, cede alla tentazione di far vedere al lettore quanto
sia bravo nel classico gioco di passarsi 5 o 6 palline contemporaneamente da
una mano all’altra: ciò che ne risente, di questa ricerca della contorsione
fine a se stessa, è la comunicazione: interi paragrafi come montagne che partoriscono topolini, in cui i concetti
nuotano asfittici sotto il livello dell’acqua, e quando riescono a emergere lo
fanno – forse per compensazione – in maniera eccessiva, causando ridondanza appunto
concettuale. Ogni tanto ci si chiede: ma cosa ho letto?
Ma lei non aveva ancora smesso di parlare. Allungò le braccia sul tavolino del bar. Si stiracchiò. Le croci appese al collo tintinnarono. Disse: “Quello stesso pomeriggio, subito dopo il pranzo, abbiamo fatto l’amore per la prima volta”. Ebbi una fitta al cuore. Se davvero quel temporale portava delle gocce di pioggia provenienti dal futuro, e se il futuro sarebbe stato un mezzo incubo, allora un improvviso movimento di nuvole avrebbe dovuto far scendere su Giulia un piccolo cono di luce, in modo che la ragazza ne fosse protetta e, avvolta da un bagliore fuori dalle leggi di natura, diventasse indimenticabile (cosa che dovette succedere, se io me la ricordavo ancora) perché, in avanti con gli anni, ci sarebbe capitato sempre più spesso di sederci a un bar con ragazze e poi con donne che sarebbero venute a raccontarci le loro imprese erotiche, e lo avrebbero fatto in modo sempre più esplicito e dunque meno scoperto, non per scandalizzarci ma per ricevere la conferma di non essere state ancora scaraventate fuori dallo “spirito del tempo”, lo stesso Spirito che però impediva loro di raccontarci l’aspetto più profondo e delicato di tutta la faccenda: su queste cose non riuscivano più a esprimersi, come se un guasto, una silenziosa catastrofe verificatasi a un certo punto delle loro vite (nelle vite di tutti noi) le avesse in qualche modo mutilate; e per avere una speranza di venirne fuori saremmo stati allora costretti a ricordarci di una ragazza con due ridicole calze a rete tirate sulle braccia che molto tempo prima, circondata dalla sua luce personale, aveva detto: “E quello stesso pomeriggio, subito dopo il pranzo, inevitabilmente abbiamo fatto l’amore per la prima volta”.
Il libro, in quei tre quarti di
cui dicevo, cade di frequente in questo che a mio parere è un problema che da –
apparentemente – formale, diventa anche contenutistico e come in un contagio invade l’opera: non riesce cioè a
cogliere quella profondità esistenziale a cui aspirerebbe, disinnescandola per
via di un narcisismo stilistico che Lagioia non ha saputo (o voluto) tenere a
bada. Un tocco di narcisismo, preciso il mio pensiero, non è mai negativo a
priori: quando è funzionale (o addirittura si fa struttura) a un’architettura
narrativa rappresenta anzi un valore in più; ma quando è esibizione di penna di
marca diventa superfluo. Conferma di questa tendenza allo strizzare l’occhio al
lettore, è l’utilizzo ruffiano del
corsivo: a volte non serve proprio, e lo si utilizza per dare un presunto peso virtuosistico
a parole che particolare peso, in tali contesti, non hanno:
Poi si sarebbe trasformato nuovamente in un ragazzo diverso dagli altri – solo, muovendosi nell’altra direzione: sarebbe diventato scaltro e lucido e pragmatico, adatto al tempo che stavano vivendo.[…] Così, alla fine della quinta ora, il suo PK special color prugna era a mia disposizione nel cortile della scuola. Io ero raggiante. Giuseppe era raggiante. Sembrava addirittura lui grato a me per avergli dato l’occasione di sbarazzarsi dello scooter.[…] Aveva addosso questa maglietta e nient’altro! […] Il suo biancore non suggeriva costrizione ma spreco, faceva pensare a una ragazza con una spiaggia tutta per sé che non approfitti mai del sole per pura e semplice negligenza.
Nell’ultimo quarto del libro,
quello concentrato sul problema della tossicodipendenza, forse Lagioia sente
una più forte esigenza narrativa e c’è una maggior focalizzazione, accompagnata
da un superiore rigore stilistico: e lì il romanzo, finalmente, riesce.
È forse banale farsi venire alla
mente, dopo aver letto Riportando tutto a casa, Bret Easton Ellis che, soprattutto
in Meno di zero e Le regole dell’attrazione (entrambi Einaudi), affronta lo stesso periodo storico, e i
problemi di droga, con una scelta stilistica opposta: frasi secche, minimali,
dirette. Da ciò capiamo che a volte si
scava più a fondo con una semplice pala, che con un sofisticato escavatore soggetto
all’inceppamento.
Piero Fadda
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