La sottile linea scura
di Joe R. Lansdale
Einaudi, 2004
pp.300
C’è chi, parlando della Sottile linea scura di Joe R. Lansdale, cita subito il Bildungsroman, il romanzo di formazione
alla Stand by me con la classica
perdita dell’innocenza.
Stanley Mitchell, il protagonista tredicenne, in una lunga estate calda texana scopre che il mondo non è come lo
credeva, che le persone fanno sesso fra loro, uccidono, si ubriacano, picchiano
la moglie, picchiano i figli. Soprattutto scopre che i neri non sono uguali
ai bianchi, non è loro concesso lo stesso posto nell’ordine delle cose.
Quella è gente che non ha di meglio da fare che smuovere le lapidi della gente di colore o ridurle in mille pezzi buttandole nel torrente. Che poi sono pure codardi, figliolo, perché lo sanno che i neri non reagiranno mai, così davanti a tutti, col rischio di vedersi arrivare quelli del Klan, altra gente di quella fatta.
Scopre
che i diritti non sono per tutti, che le donne, specie se di colore, sono
sempre vittime; che i pregiudizi avvelenano i rapporti sociali, le amicizie, il
vicinato; che c’è chi lucra sulla pelle degli altri; che non tutto è come
appare.
Noi,
però, non ci soffermeremo su quest’aspetto scontato, ma toccheremo il
principale pregio di un romanzo che, se non segna, non sconvolge, non penetra, comunque
avvince almeno per il tempo limitato della lettura: non è la crescita interiore
del protagonista, come abbiamo detto, né l’intreccio, improbabile e pure irrisolto,
quanto piuttosto l’atmosfera riuscitissima dell’America fine anni cinquanta.
Non seguiamo,
quindi, l’investigazione di Stanley sulle due ragazze morte in circostanze
oscure molti anni prima, il ritrovamento delle lettere, il cofanetto sepolto,
la paurosa casa sulla collina. Alla fine, le sue scoperte ci
lasciano indifferenti: Stanley sembra non avvertire nemmeno orrore
mentre disseppellisce cadaveri che dovrebbero agghiacciarlo. Non ci interessa
dipanare il mistero del fantasma senza testa che si aggira lungo la ferrovia,
quanto piuttosto tallonare Stanley nei suoi spostamenti, pedalare con lui su
per la collina mentre l’aria rinfresca prima del temporale, infilarci nel
gabbiotto del proiezionista negro sempre ubriaco.
D’estate ce ne voleva prima che facesse buio, e il sole – che ancora non trovava ostacolo in grattacieli né in casermoni popolari – si tuffava tra gli alberi del Texas orientale come una stella cadente. Via via che tramontava, dava l’impressione di mettere a ferro e fuoco interi boschi.
Stanley
gestisce con la famiglia un drive in, in una cittadina del Texas magistralmente
ricreata dall’autore e che ci pare aver visto tante volte nei film, fatta di
case di legno, di prati, di ragazzini in bicicletta, di giovani con il ciuffo e
il risvolto sui pantaloni, di tavole calde capaci di farci tornare alla mente quelle evocate negli anni trenta da McCain ne Il postino suona sempre due volte.
Alla radio passava il rockabilly, o il rock and roll, come finì poi per essere chiamato, ma di queste atmosfere rock and roll l’aria delle nostre parti non era certo satura. Eravamo solo un branco di ragazzini che il pomeriggio e la sera si radunavano di fronte al Dairy Queen, in particolare il venerdì e il sabato sera. Alcuni di noi, come Chester White, portavano i capelli a coda di papero e giravano su macchine super truccate. Quasi tutti avevano i capelli corti, e una cospicua banana sul davanti, tenuta ferma da un bel po’ di brillantina. Indossavano calzoni ben stirati, camicie bianche inamidate, e scarpe marroni belle lucide e guidavano la macchina di famiglia le volte che riuscivano a metterci le mani sopra.
Sembra
una scena di Grease o del telefilm Happy Days, ma qui i protagonisti hanno varcato la sottile linea scura che “separa i misteri delle tenebre dalla realtà”, porta alla luce i cadaveri, il marcio, il putrefatto, il celato, e
dove un ragazzo che ha appena smesso di credere a Babbo Natale scopre la bestialità
degli uomini. Durante la sua indagine, Stanley si scontra con la rabbia covata
dai negri per la loro condizione subalterna, rabbia che, a loro volta, i maschi
(non solo neri) sfogano sui figli e sulle donne per riaffermare la propria
esistenza, il proprio posto nel mondo.
Stanley
però si salva, la sua luce interiore rimane intatta grazie all’esempio
familiare, alla rettitudine del padre, all’amore della madre, alla complicità
della sorella maggiore, alla dignità del suo cane, all’amicizia del
proiezionista Buster e del coetaneo Richard. Qualcosa però si è incrinato, la
vita non sarà mai più spensierata come una volta, una sorta di malinconia
diffusa accompagna tutto il romanzo dalla prima all’ultima pagina.
Non sempre la vita dà soddisfazione e, al tirar delle somme, carne e polvere finiscono per rivelarsi la stessa cosa.