Scuola
di Giuseppe Cappello,
Aletti Editore, Roma
pp. 50
€ 12,00
Questo libro di Giuseppe Cappello è costituito da un
gruppetto di poesie, 26 in tutto, e da una scelte antologica delle stesse
tradotte in inglese. Un libro, insomma, a dir poco stringato, che presenta al
lettore una serie di componimenti appartenenti tutti ad uno stesso ambito
tematico ed espressivo: protagonisti assoluti ed esclusivi di queste poesie
sono la scolaresca, l’insegnante (o gli insegnanti) e l’aula, con tutti i suoi
elementi materiali e inorganici e di cui la foto di copertina (ben scelta e ben
significativa) fornisce una rappresentazione iconografica che ne conferma il
ruolo tutt’altro che secondario nella trasfigurazione letteraria
dell’esperienza esistenziale. Per quanto scarna, la silloge di Cappello merita,
a parer mio, d’essere segnalata perché offre al lettore uno sguardo non comune
sul mondo scolastico. Siamo abituati a veder rappresentato il mondo della
scuola sotto una luce che ne mette in rilievo la disincantata e burocratica
postura degli insegnanti, la distratta e infingarda partecipazione degli
studenti e la derelitta struttura edilizia che li accoglie, l’aula, appunto.
Tutte cose ovviamente innegabili e sperimentate da tutti e ciascuno, ma la
poesia, la letteratura posso anche mostrarne i lati meno sconfortanti e indurre
speranza per approcci meno abbrutenti. Ed è quanto fa, sospendendo
considerazioni sociali stringenti e puntuali, il poeta-insegnante Giuseppe
Cappello. Si tratta, beninteso, di uno sguardo idealizzante e soggettivo, ma
sorretto da un’elaborazione stilistica coerente e riconoscibile, che le
conferisce plausibilità e condivisibilità, letteraria, se non altro.
Secondo classificato al Premio Carver 2012, opera edita di poesia |
Tra le tracce stilistiche più evidenti
di queste poesie mi piace segnalare la commistione di termini di etimologia,
stati d’uso e natura del tutto diversi, se non opposti, così possiamo trovare
accostamenti tra “dio” e “iPod”, tra “essere” e “slang”, ecc.; le
metaforizzazioni raffinate, sebbene talvolta un po’ ermetiche, che rendono
rarefatta e preziosa l’espressione; le sovrapposizioni metaforiche o
allegoriche tra situazioni comuni e quotidiane, il poker, il calcetto, il
volley, e la proiezione mitiche che suggeriscono all’io lirico e che danno alla
scolaresca una dimensione al contempo ideale e usuale, contingente e eterna. Le
stesse parole, le stesse immagini, gli stessi procedimenti vengono ripetuti più
volte in diverse poesie contribuendo a formare l’idea della poesia come stanza,
aula, dentro cui risuonano, si richiamano, si ripercuotono, voci e pensieri,
sensazioni ed emozioni, facendone un mondo chiuso, consapevolmente separato dal
resto. Spesso il componimento non ha svolgimento sintattico o narrativo, e i
singoli versi sono autosufficienti, collegati a quanto precede o a quanto segue
in virtù del contesto, dell’aula reale che li suggerisce e di quella
metaforica, la poesia, che li accoglie. Nell’ultimo componimento l’io lirico
esce dall’aula e racconta il quotidiano viaggio dal centro alla periferia per
raggiungere la sua scolaresca: il tono si fa più colloquiale, la
trasfigurazione mitico-letteraria dell’esperienza esistenziale è modulata in
forme più comuni. La clausola, però, dove il poeta incontra di nuovo la
figlioletta, ripropone l’impennata improvvisa che va dal quotidiano al mitico
senza passare per la storia e che val la pena di citare perché rappresentativa
dei meriti e dei limiti dell’intero libro:
Ti vedo(…) I lazzi ed i baciLancette d’infinito nel pendolo del dio.
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