di Edoardo Albinati
Mondadori, Milano 2012
pp. 150
Formato cartaceo: 18 €
Formato Kindle: 9,90 €
Mi è difficile spiegare o anche semplicemente raccontare il mondo di vita dell'uomo che era mio padre. Per far questo bisognerebbe penetrare nel suo carattere, capirlo, e io mio padre non l'ho mai capito.
Un tumore in stato avanzato, un uomo che ha sempre lottato per dissimulare il dolore e un figlio che non sa come raccontare «questa specie di saggio» su suo padre. Perché non c'è una conoscenza approfondita:
Di mio padre ne so quanto ne so di uno scrittore minore del secondo Ottocento italiano. Cioè qualche aneddoto, il riassunto della trama, e in quattro parole, come si diceva a scuola, la sua "poetica".
E ancora:
Ma perché usava sempre quel tono un po' canzonatorio e denigratorio? Perché recitava sempre lo stesso ruolo? Forse per timidezza?
Nonostante questo, il richiamo al suo capezzale è forte: non serve partire, allontanarsi di chilometri, prima in America e poi in Germania, per la paura umanissima di sfuggire all'agonia del padre; i tempi più duri sono vissuti al bordo del letto, con quella «retorica» di gesti, richieste e risposte che si succedono identiche. Non resta che muoversi tra i piani temporali della narrazione: il presente della scrittura, che tende agguati al passato della malattia e della morte (per fili cronologici orientati, ogni tanto strappati da un ulteriore flashback e ri-intessuti successivamente) e al passato più lontano dell'infanzia. Benché il padre fosse sempre parso inafferrabile ed enigmatico, al narratore-coprotagonista non sfugge quanto il padre sia centrale nella sua vita: «Ho l'impressione che fino a quando camperò io sarò sempre, prima di tutto un "figlio"». Dunque, il padre è una figura ingombrante, che ha sempre portato il figlio a tendere a una comprensione irrisolta e irrisolvibile anche nel momento della malattia, perché per lungo tempo (e molte pagine) il genitore fa di tutto per dissimulare il dolore.
Storia autobiografica o no (occorre sempre mantenere una certa diffidenza), Vita e morte di un ingegnere è un romanzo di angosce distillate dall'autodifesa: a ogni scalfitura del cinismo, si apre una ferita non cicatrizzabile. La stessa pratica della scrittura, da parte del figlio-narratore, risponde da un lato al bisogno di registrare la memoria, con anche i dettagli più aspri e abbrutiti; dall'altro è un filtro distanziante tra la realtà cruda e la messa in gioco dei propri sentimenti:
l'angoscia di veder morire il proprio padre e al tempo stesso provare il desiderio di descrivere questo evento, vederlo soffrire e pensare alle parole in cui esprimere la sofferenza, coniando le frasi adatte, soppesandole, come se da tutto quel dolore non dovesse uscire che una pagina. Mentre mio padre moriva lentamente io annotavo dentro di me i momenti cruciali della sua agonia. Prendevo appunti.
Il desiderio quasi parossistico di ordine, viene però sconvolto dalla impossibilità di imbrigliare tutti i pensieri in una struttura narrativa coesa e tradizionale. Più volte Albinati denuncia questa sua incapacità di organizzare i ricordi in una narrazione, più volte lamenta la frammentarietà strutturale e contenutistica dell'opera, il suo andamento capriccioso e disarticolato:
Volevo dare una visione d'insieme e invece mi sono accorto che riesco solo ad accumulare dettagli, frammenti che restano scollegati tra loro come tessere di un puzzle lasciate sul pavimento da un bambino disordinato.
E tuttavia è proprio questa scelta istintiva (o diciamo: "ben decostruita", se vogliamo vederci una deliberata strategia compositiva) a rendere così drammaticamente vivo ed empatico tutto il romanzo. Tirarsi fuori, da parte del lettore, è un'impresa quasi impossibile: tutta la discesa verso gli Inferi e la cremazione, fino alla sepoltura, non è solo una lettura, da inquadrare come un'esperienza altrui. Ci sono dettagli minimi, mai patetici, ma dettagli di quella quotidianità ospedaliera (ansiogena e ingrigita al tempo stesso), del calvario delle cure e dell'accanimento terapeutico, fino ai punti più estremi che scavano, anche nel lettore, un solco di empatia. Vita e morte di un ingegnere è uno dei libri che più segnano, negli ultimi anni, un punto di non ritorno nel modo di guardare alla malattia novecentesca per eccellenza. Per stile, scrittura e contenuti mi sento di dire che ad oggi è uno dei romanzi contemporanei più degni di fregiarsi del titolo di Letteratura. Peccato che sia passato fin troppo sotto silenzio.
Gloria M. Ghioni