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CriticaLibera: due letture di Stefano Benni, "Achille Piè Veloce"

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A qualche settimana dall'uscita di Di tutte le ricchezze, ultimo romanzo di Stefano Benni, facciamo un salto di sette anni indietro e parliamo qui di un altro romanzo dell'autore, edito da Feltrinelli nel 2003: Achille piè veloce. Serena Alessi e Valeria Inguaggiato lo hanno letto per voi e ci dicono la loro su questa strana storia dal sapore mitico e dal tipico stile benniano.




Achille Piè Veloce
di Stefano Benni

Feltrinelli, 2005 (2003)






1. Immaginazione, ironia e forza narrativa

La lettura di Valeria Inguaggiato


Benni è un narratore instancabile e vulcanico, un cantore dei nostri tempi. Achille Piè Veloce fa risuonare una ad una le corde della scrittura benniana, definita da tutti, a gran voce, polifonica. Polifonica nei linguaggi, nei temi e nei toni.
Cosa succede alle persone cosiddette normali quando incontrano di colpo un matto che urla, o le investe di un delirio incomprensibile? Quando vedono qualcuno crollato a terra, o inchiodato da uno spasmo sui gradini di una chiesa? Dopo l'incontro restano immobili, con un'espressione di disagio, di paura o di stordimento. Ma il loro volto è cambiato, è come se fossero state fotografate da una luce accecante, scuotono la testa, parlano da sole, per un attimo anche la loro normalità sembra incrinata. Cos'hanno visto nel lampo di quella luce, quale paesaggio, quale specchio, quale verità insostenibile che dimenticheranno subito dopo, ma la cui immagine resterà per sempre, in qualche recesso buio del loro cuore, nella biblioteca in fiamme della loro vita?
Il romanzo tenta di riprodurre questa forza, un lampo di inquietudine. E riesce magistralmente in quest’intento. A una continua sperimentazione corrisponde anche un’impeccabile coerenza narrativa.  Ci troviamo in una città anonima, popolata da foreste di antenne, rinchiusa in muraglie di grigi palazzi e agghindata con scintillanti manifesti di donne-bambole. Ma l’immaginazione si intreccia a questa squallida realtà e Benni le concede ampio spazio. Ulisse è un lettore di una piccola casa editrice, assillato da lillipuziani scrittodattili che lo prendono in ostaggio, si arrampicano sui suoi capelli, si nascondono nelle sue tasche ma soprattutto richiedono la sua attenzione. Ulisse si definisce «poligamo-politropo» ma è legato ad una sensuale sudamericana, Pilar-Penelope. E poi c’è Achille, personaggio sagace, intelligente e dall’aspetto mostruoso. Gravemente malato dalla nascita è stato ulteriormente condannato dalla medicina che ha peggiorato la sua situazione. Sarà lui a individuare con spietata lucidità il vero malato: il mondo. Queste due vite si incontreranno e si nutriranno a vicenda.

I loro dialoghi sono spregiudicati, crudeli e comici. Achille lo attira piano piano dentro a un tempo tutto suo, dentro a un mondo morboso e affascinante fatto di «male e dolore (...) e poesia, e merda, e tutte e due insieme». In fondo a un lungo corridoio buio, in una stanza-cella Ulisse regala ad Achille un po’ di realtà e soprattutto il sapore di Pilar e sogni creoli. Achille tragicamente dice «ho bisogno di lei perché io ho le parole, ma non il mondo». Nei loro incontri senza reticenze le fantasie sessuali si mescolano a lezioni di vita e a considerazioni sulla malattia, senza mai abbandonare una dimensione ironica. Ulisse racconta la vita e Achille subito dopo, con i suoi scritti, la inventa.


L’immaginazione e il mito nutrono la storia. A partire dai nomi: Ulisse, Achille, Pilar-Penelope. Ma il gioco onomastico non termina qui: Febo, fratello di Achille «un bellissimo prototipo di ruffianeria, di avidità criminale, di disprezzo del dolore, un eroe di questi tempi», la segretaria ammaliatrice Circe, l’agguerrita sindacalista Minerva, lo scrittodattilo Virgilio Colantuono e il figlio Enea e per finire le cubiste Criseide, Briseide ed Elena.
Il mito trasfigura la realtà tutta. Gli oggetti prendono vita, commutano la propria natura; l’autobus sarà un mostruoso dragobruco che inghiotte le persone, il fiume d’acqua fangoso un Acheronte furibondo, i lavori in corso le rovine di Ninive e, con un sottile e divertente gioco di parole, i ragazzi che ballano sbavando sotto le ragazze-immagine un’orda di proci.

Il romanzo chiama a rapporto gran parte dei mali della nostra epoca. Emerge una realtà farcita di brutta politica e di avidità, di disgustosi intrecci e ruffianerie. Su tutti trionfa il «locus miser» della televisione e l’Eden Market, centro commerciale e nuovo luogo di culto. Nella nostra realtà la volontà di potere e la mancanza di pietà non lasciano spazio alla libertà umana. Ecco un tragico quadretto:
- Non ho paura- disse Febo- ma non c’è spazio per tutti. Abbiamo bisogno di aria. Non sono un passacarte come lei, non sono inchiodato ad una sedia a rotelle come Achille, io sono un uomo libero.Lo diceva pietrificato nell’ingorgo, col suo Xanto da cento milioni, crocefisso al sedile, intossicato di astio e benzene. Accese una sigaretta aggiungendo fumo a fumo e tosse a tosse.
Interessante, infine, la tematica metaletteraria che si lega perfettamente alla storia. L’atto della scrittura non viene indagato solo nel suo aspetto più nobile ma emerge il lato pragmatico con l’editoria e le scelte commerciali. Benni ci fa gustare la sua appassionata idea di scrittura mantenendoci, comunque, col viso rivolto alla realtà concreta. Creatività e drammi quotidiani vanno di pari passo.

L’invenzione linguistica, lo humour e il ritratto di Achille compongono un romanzo straordinario che ammicca al lettore con un ghigno demistificatore e mette in campo, come le antiche gesta, temi universali. 


2. E a te pur anco, Achille,/ a te che un Dio somigli, è destinato/ il perir sotto le dardanie mura (Iliade, XXIII, 103-105)? Gli eroi omerici secondo Stefano Benni

La lettura di Serena Alessi


“Sono gli eroi quotidiani che vanno celebrati, no?” dice Stefano Benni durante la presentazione del suo Achille piè veloce alla Feltrinelli di Milano nell’ottobre del 2003. Così l’eroe omerico per eccellenza, l’Achille piè veloce dall’ira funesta, diventa nel libro dello scrittore bolognese un ragazzo affetto da una grave malformazione fisica. Il glorioso figlio di Teti perde tutta la sua forza e la sua velocità, e si reincarna in un disabile ancorato alla sua sedia a rotelle Xanto. Questo è solo uno tra i tanti contrappassi di cui è fatto il libro, in cui i personaggi e le vicende omeriche si ripropongono per analogie o per contrapposizioni. Circe è una segretaria volgarotta che sfoggia minigonne maculate, il Ciclope un poliziotto poco scaltro con un occhio bendato. E poi c’è Ulisse, detto Lello: un giovane scrittore alle prese col blocco della creatività e con una casa editrice che fattura poco. Dopo aver scritto il suo primo libro, Ulisse si dedica alla correzione degli “scrittodatili”, dattiloscritti inviati da sedicenti scrittori che – per l’ossessione che creano nella mente del povero correttore di bozze costretto a leggerli – diventano fardelli dallo spietato nome preistorico. Se Ulisse soffre del blocco dello scrittore, Achille, invece, ha una fervida fantasia. Per la sua storia, però, ha bisogno di una ragazza, come in ogni storia d’amore che si rispetti. Solo che lui una ragazza non l’ha mai avuta, e così chiede aiuto a Ulisse,  che inizia a raccontargli della sua fidanzata Pilar, “tipica bellezza latina” con qualche irregolarità nel permesso di soggiorno, che per arrotondare fa la cubista in un locale davanti agli sguardi famelici di Proci poco principeschi.
Tra Achille e Ulisse si stabilisce un rapporto binario in cui il primo ascolta e “usa” Ulisse per appagare le sue fantasie sessuali, mentre il secondo racconta delle sue avventure poco guerresche nella quotidianità di uno spazio fortemente urbanizzato. Con tagliente e spesso crudele ironia, e nonostante comunichi attraverso lo schermo di un computer, Achille trasmette a Ulisse la forza di “essere vivo fino alla fine” e di cercare il suo “nome nel buio”:
Hai un nome a cui rispondi, il nome con cui ti chiamano gli uomini. Ma qual è il nome del tuo mistero, il nome a cui rispondono i tuoi ricordi, le tue paure, la tua ispirazione? Credi che ci sia una parola che può descrivere tutto questo? Non c’è: se ci fosse, sarebbe il tuo nome nel buio. Il tuo vero nome. Quanti libri meravigliosi sono nascosti nel silenzio di chi vive immobile, muto, cieco.
Cieco come Omero,  Achille vede il mondo al di fuori della sua stanza con gli occhi del suo amico, e con le mani di Ulisse tocca la bella Pilar. Achille, che non riesce nemmeno a tenere in mano una penna per scrivere il suo nome, ora inventa sullo schermo luoghi mai visti e relazioni mai vissute.
Che i personaggi di omerica memoria abbiano spesso aspirazioni letterarie nelle riproposizioni moderne del mito non è cosa nuova: l’Ulisse di Malerba, ad esempio, sente fortemente l’esigenza di scrivere in Itaca per sempre, e trascorre le sue giornate col cantore Terpiade a comporre i versi di Iliade e Odissea. Nel romanzo di Benni la scrittura fa da trait d’union tra i due ex guerrieri omerici, fino a farli identificare completamente, tanto che Achille proporrà a Ulisse di firmare il libro col suo nome.

Cimentarsi con il mito non è cosa semplice, seppur sia una sfida che faccia gola a molti scrittori. La forza vivifica dei miti sta proprio nel poterli considerare archetipi da declinare a seconda del gusto dell’epoca o delle preferenze dello scrittore. In particolare, la fortunata storia di Ulisse sembra fatta apposta per poter sempre aggiungere un “ultimo viaggio” alle sue peripezie per il mondo, ed inventare ancora un’altra storia che ripercorra la sua Odissea, che reinventi il suo ritorno a Itaca e a Penelope, o che lo spinga ancora una volta verso altre avventure marine. Com’è facile immaginare, non sempre i risultati di questi processi di riscrittura sono da considerare all’altezza della fortuna di cotanto modello (un esempio tra tanti: Omero, Iliade di Baricco, un collage di brani tratti dall’Iliade che di innovativo hanno ben poco).
Stefano Benni riesce nel non facile compito di giocare con il mito in maniera originale. Il suo stile contamina generi e toni, e l’ironia è spesso il risultato del pastiche di citazioni omeriche e slogan pubblicitari. Ma allo stesso tempo Benni va oltre il divertissement littéraire e denuncia fortemente le ingiustizie operate dalla classe dominante a scapito degli ultimi (presenti nel testo nei panni di un’immigrata e di un disabile) . La condanna sociale e politica emerge netta nel romanzo ambientato in un paese
Castrato, videocomandato e teleonanista, assordati dagli spot di un miliardario gonfio d’odio,una dépandance dell’Impero, un luna park per delinquenti, un’azienda in bancarotta di idee e di speranze.
Achille (o meglio Achille-Benni, dato che lo scrittore stesso ha affermato: “in questo libro c’è la mia storia, perché poi questo personaggio sono io, ovviamente. E c’è tutto quello che io trovo vivo e vitale, che mi ha fatto diventare uno scrittore”), dal buio della sua piccola stanza, dà questo insegnamento a Ulisse: ritrovare nella semplicità delle piccole cose la dignità e la coerenza per non conformarsi ai compromessi di un mondo squallido e cementificato.
 - Promettimi che sarai felice. Che ti farai sorprendere dall’allegria. Non dire che parlo di cose che non conosco. Nel mio buio ogni libro mi fece sperare, dalla mia finestra immaginai felice ogni quotidiana, umile conversazione. Anch' io ho conosciuto gioia e allegria, meno di quanto volevo e di quanto avevo bisogno. Ma questa è malattia di tutti. [...]

- Chi sei?

- Un diseredato senza ricchezza. Un bifolco, con uno spietato padrone. Ma non sarò un’ombra che si spegne. Sono stato vivo fino alla fine. Ama il tuo respiro, Ulisse.

Serena Alessi e Valeria Inguaggiato