Dario Fo. Un giullare nell’età contemporanea
di Antonio Catalfamo
Solfanelli edizioni, Chieti, 2012
pp. 95
€ 9,00.
di Antonio Catalfamo
Solfanelli edizioni, Chieti, 2012
pp. 95
€ 9,00.
Quest’interessante
e documentata monografia che Antonio Catalfamo dedica a Dario Fo si compone di
due parti distinte, ognuna delle quali ha ragioni per suscitare l’attenzione
del lettore, comune o specialista che sia. In entrambe spicca comunque un
retroterra di studio e di formazione del giudizio ben solidi e argomentati. La
prima parte, che dà il titolo al libro, ricostruisce l’origine e l’impatto
culturale (teatrale, sociale, ideologico e politico) dell’opera di Dario Fo: la
sua scelta radicale a favore di un teatro popolare, la ricerca
storico-filologica, la creazione di un nuovo linguaggio e di una nuova forma di
rappresentazione che, guardando al passato, alla tradizione medievale, alla
Commedia dell’Arte, al teatro di Ruzzante, riproponesse in forme fruibili per
la società di allora una linea artistico-letteraria alternativa e ribelle
rispetto alla cultura elitaria. Una scelta e un impegno di questo tipo, che in
quel momento comportavano comunque rinunce a prebende e a facili gratificazioni
di pubblico, vista tra le nebbie della nostra contemporaneità non apparirebbe,
senza la necessaria storicizzazione, tanto innovativa e eversiva, come invece
fu. Anche perché negli ultimi trent’anni la stessa cultura accademica ha
abbondantemente scandagliato e fatto riemergere quel fiume carsico, la cultura
popolare, che per secoli ha accompagnato in posizione defilata e
semiclandestina la produzione letteraria e teatrale colta. La scelta e
l’impegno di Dario Fo non si limitavano alla creazione di spettacoli teatrali
popolari, ma traevano origine e rispondevano ad un più generale impegno etico e
politico, dell’uomo prima che dell’artista, e che riguardava l’insieme della
produzione e dello spettacolo teatrale, coinvolgendo i luoghi delle
rappresentazioni (fabbriche, piazze, ecc.), e il pubblico, non più
prevalentemente borghese e istruito. Dario Fo è stato, insomma, il
rappresentante più preparato, talentuoso e creativo di un’aspirazione
comunemente sentita per un teatro del popolo e per il popolo. Dubito,
onestamente, che quel tipo di impegno, quel tipo di coinvolgimento totale non
sia legato specificatamente ad una precisa stagione storico-culturale e son
quasi sicuro che oggigiorno sia addirittura deleterio parlare di “cultura
popolare” come alternativa alla cultura colta, tanto la situazione s’è
trasformata che quella cultura, sana, vigorosa, ribelle, appare sempre più
assorbita da una melassa informe e succube di visioni politiche e sociali del
tutto confacenti al potere che dovrebbe combattere. Credo perciò che l’opera di
Dario Fo e tutta la stagione di cui è un benemerito esponente possano essere
rivitalizzati e reinseriti con profitto nell’attuale circuito culturale solo
grazie ad un’energica storicizzazione. Al di là di questo, tra i punti
qualificanti della proposta di Catalfamo c’è, a mio parere, l’insistenza sulla
ricerca filologico-storica di Dario Fo, sul tentativo di ricostruire una
metodologia della rappresentazione che facesse proprie le concrete condizioni
del teatro popolare antico. Ricerca che non tralasciava dati antropologici di
sicuro interesse: «Dario Fo dice di aver imparato il coordinamento tra gesto e
parola ancora una volta dal popolo, dai Comacini, operai muratori che
eseguivano lavori di edilizia nel Medioevo, dai rematori veneziani, dai
fabbricatori di corde in Sicilia, che sincronizzavano i vari gesti,
corrispondenti alle varie fasi della lavorazione, con le canzoni (…) Fo si richiama
alle teorie dello studioso russo Plechanov, secondo il quale “la gestualità dei
singoli popoli è determinata dal loro rapporto con la sopravvivenza”».
A
voler essere pignoli, questa prima parte sarebbe stata più accessibile e utile
al lettore non specialista se avesse contemplato un profilo biobibliografico di
Dario Fo e una bibliografia critica più ampia rispetto a quella deducibile
dalle note.
La
seconda parte del libro di Catalfamo, intitolata Il Contrasto di Cielo
D’Alcamo: testo della letteratura «colta» o «giullarata» medievale?
L’interpretazione di Dario Fo, è un’accurata e godibilissima ricognizione delle
diverse interpretazioni suscitate dal celeberrimo Contrasto (“Rosa fresca aulentissima…”, tanto per rinverdire le
sopite reminiscenze liceali) di Cielo D’Alcamo. I primi due versi sono da
sempre oggetto delle più disparate parafrasi letterali: se la “rosa” è metafora
per “donna” come può essere desiderata da “pulzell’e maritate”? Per
sintetizzare il pregevolissimo lavoro di Catalfamo si può dire che
l’interpretazione oggi più accreditata (e più pacificante…) è quella
dell’iperbole: “tanto bella da piacere anche alle altre donne”. Ne rimangono,
però, altre, più o meno condivise, più o meno argomentate, tra cui quella di
Dario Fo fondata non solo su una precedente interpretazione d’inizio Novecento
fornita da un insigne studioso di letteratura medievale, ma anche su una
“filologia integrale” che fa del testo il risultato di un ambiente storico,
sociale e culturale molto ampio e dettagliato. L’interpretazione di Fo, sulla
quale non mi dilungo in particolari per
invitare il lettore a scoprirla da sé, fa del Contrasto un autentico saggio letterario e teatrale capace di porsi
in radicale alternativa alla letteratura colta, svellendone le artificiose e accomodanti
sovrastrutture retoriche; interpretazione che per altro svela tutto il secolare
lavorio per riportare quel testo ad una considerazione più consona ai dettami
della letteratura colta.
Ma per quanto si possa
concordare o meno sull’interpretazione di Fo, in fondo un testo letterario, al
di là della sua pur necessaria oggettività filologica e interpretativa, è in
grado di produrre senso nel Lettore fin tanto che riesce ad interagire con il
suo spirito e la sua contemporaneità. Spirito e contemporaneità che sono
componenti essenziali di quella “filologia integrale” auspicata da Antonio
Catalfamo.
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