di Dino Buzzati
Mondadori, 2001 (18^ ristampa)
a cura di A. Garancini Costanzo
€ 9,00
In passato, è stato scritto che Buzzati ha progettato Il deserto dei tartari come un’allegoria, dal greco ‘álla ‘agorèuo: dire qualcosa attraverso altro. Parlare di questo romanzo come di qualcosa che deve dire altro, rimandare a un piano simbolico e connotativo piuttosto che semplicemente descrittivo, significa rendere la narrazione esemplare, costruire un paradigma che, attraverso un’unica storia possa contenere quelle di altre centinaia di individui.
La storia del tenente Drogo non è quella di un militare qualunque o, meglio, è la storia di un uomo pieno di ambizioni e di aspettative come tanti suoi commilitoni ma che si esaurisce lentamente in una serie infinita di attese immaginifiche, prive di sbocchi reali; la storia di una vita che assurge a parabola di ogni esistenza priva di slancio o che, al contrario, conosce, a volte anche solo intuisce, tale slancio e costruisce tutto il suo mondo intorno ad esso perdendo il contatto con la realtà.
Se, infatti, la vita dell’ufficiale può apparire priva di entusiasmo perché piena di rinunce, ovattata dell’abitudine, scandita da una serie infinita di giorni e azioni che si ripetono con la monotonia e la precisione di una marcia militare, d’altro canto, i continui sacrifici e l’abnegazione del soldato vanno a consolidare una scelta: quella di difendere una fortezza di confine il cui valore strategico è inficiato da una lunga pace. A seguito di tale scelta, l’abitudine si trasforma in un rito in grado di propiziare l’arrivo dei tartari e l’inizio della battaglia, le marce, le perlustrazioni, le veglie delle sentinelle dalle mura dei torrioni vengono pervase dal fervore che accompagna ogni leggenda.
Il nostro eroe non è, però, l’unico a credere nel mito dei tartari. Anche i suoi superiori, il sarto e altri personaggi minori attendono l’onore delle armi. Si potrebbe dire che Drogo abbia trovato il suo posto nel mondo grazie a una specie di credo collettivo che professa l’attesa del ritorno, quasi messianico, del leggendario esercito al di là della frontiera, al di là del deserto.
Sarebbe forse banale dire che il deserto è la metafora di un vuoto interiore. Il deserto è innanzitutto il luogo in cui si configura tutto ciò che è mistero: dalle falde sotterranee che lo percorrono per scaturire in sorgenti e oasi, all’apparizione, nella solitudine di un paesaggio lunare, di un cavallo abbandonato, (sfuggito ai leggendari tartari?), alla costruzione di una strada che non si sa da dove parta, dove porti ma, soprattutto, a cosa serva (una via carovaniera creata da commercianti, un passaggio per rifornire fantomatiche truppe? Un sentiero per pastori, esploratori o soldati pronti per un’operazione di frontiera?).
La ricerca del tenente Drogo compendia in sé quella di molti uomini che, saldi nel perseguire un obiettivo, scrutano imperturbabili l’orizzonte.
Per certi versi, l’immagine dell’uomo solo nel bel mezzo di un mare di sabbia fa pensare a quella del vecchio di Hemingway sul suo peschereccio. In entrambi i casi, il protagonista è solo con sé stesso e, da solo, deve fare i conti con le proprie paure e la vocazione che ognuno si porta dentro e che, a ogni costo, cerca di realizzare. E se, ne Il deserto dei tartari, gli altri personaggi, soldati ed ufficiali, dialogano tra loro, ognuno di essi, nella sua intimità, vive un destino di tragica solitudine: così è per il tenente Angustina, troppo orgoglioso per chiedere aiuto ai compagni mostrandosi debole anche solo per un momento; così è per il colonnello Filimore, barricato nel suo ufficio ad osservare dalla finestra la sempre uguale e sconfinata pianura; così è perfino per il sarto che lavora freneticamente nei sotterranei rattoppando uniformi “impiccate” al soffitto.
L’invito, chiusa l’ultima pagina, è a soffermarvi su un ultimo punto: condanna o encomio? Resta, forse volutamente, in una zona d’ombra l’intenzione dell’autore e se il suo finale intendesse stigmatizzare il comportamento del protagonista o se, invece, Buzzati abbia voluto scrivere un’elegia di colui che, fino alla fine, a torto o a ragione, è capace di alimentare costantemente una fede e trasformarla in missione.
Eva Maria Esposto