Laudomia Bonanni, «Il bambino di pietra»



Il bambino di pietra
di Laudomia Bonanni
Bompiani, 1979
pp. 169


«Ho qui il libro di una sconosciuta, Laudomia Bonanni. È uscito da un concorso, ha vinto un premio letterario. Io diffido dei premi letterari, ma debbo riconoscere che esistono eccezioni e che questa Laudomia meritava veramente di essere tolta dall’ombra. Rivela una forza di narratrice che non dovrebbe fermarsi qui. Farà molta strada».


Questo battesimo di Eugenio Montale, del 6 dicembre 1949, non ha forse rispettato a pieno (al momento) la profezia: Laudomia Bonanni, scrittrice aquilana, intendiamoci, nel corso della sua vita (1907 - 2002) strada ne ha fatta: nella seconda metà del Novecento ha pubblicato con Mondadori («Il fosso», vincitore nel 1950, prima volta per una donna, del Premio Bagutta), nel 1960 ha vinto il Premio Viareggio con «L’imputata», e nel 1964 il Premio Selezione Campiello con «L’adultera»; finalista allo Strega nel 1974 con «Vietato di minori» e nel 1979 con «Il bambino di pietra»; tra il 1948 e il 1985 collaborò con varie testate giornalistiche («Il Giornale d’Italia», «Il Corriere della Sera», «Il Resto del Carlino», «L’Unione Sarda», e molti altri), interrompendo per sua scelta questa attività. È però arrivata ai giorni nostri, anno dopo anno, lentamente dimenticata.

Coerente con la sua idea che “il libro dev’essere come un sasso che si butta per colpire”, Laudomia Bonanni con «Il bambino di pietra» crea un’opera spigolosa in cui affronta e sviscera senza filtri le ossessioni e le repressioni che ci si aspetterebbe di ascoltare da una persona seduta dallo psicanalista:

«Temevo l’indagine dello psicanalista sull’attività sessuale. Il sesso all’origine di ogni nevrosi. Anche la santità un prodotto erotico, figurarsi. Purché non sia diventato seguace dello spaventoso Reich. Magari ti domandano ex abrupto se hai l’orgasmo. Freud almeno dichiarava che la vita amorosa della donna è (era?) avvolta in un’oscurità impenetrabile. […] Sono una donna emancipata e sotto certi aspetti spregiudicata, ma ho delle difficoltà. Altro retaggio delle famiglie in cui non era (non è?) contemplata la sessualità femminile. Comechesia, in tempi che hanno cominciato col far circolare tra gli studenti questionari sul sesso e rispondevano perfino a ti masturbi, per conto mio non voglio rispondere nemmeno all’analista. (Che rimanga tutto sepolto con l’infanzia.) Oggi poi le ragazzine sono capaci di dichiararsi clitoridee o lesbiche o perfino anali. Io non sono niente. Del resto ignora se sono o sono stata sposata, se ho figli. E non sembra interessarsene.»
In psicanalisi, la protagonista, ci va per “nevrosi d’angoscia”. Il libro, però, non è incentrato esclusivamente sull’aspetto sessuale, ma riprende in chiave spesso aneddotica le fasi più importanti dell’adolescenza e della giovinezza, interpretate con l’occhio maturo della consapevolezza. Assume però notevole importanza il tema della maternità, a cui è debitore il titolo «Il bambino di pietra»:

«Stavo appallottolando i pezzi di giornale, poi li ho rilisciati. Due cronache. Curiose, anzi strane. Una da Torino: caso rarissimo di calcificazione fetale. Litopedio, dal greco: il bambino di pietra. Nel ventre di una donna operata d’urgenza, questo corpicino tutto formato che “sembrava fatto di alabastro”. Citato da un certo (per me) Heinrich Martius, un altro antico caso di litopedio scoperto durante l’autopsia di una novantaquattrenne e lo portava in grembo da quarantasei anni. […]
L’irreducibile paura della maternità? Rimozione? Avrò rimosso il bambino da cui ero ossessionata e traumatizzata? Il figlio rimasto inespresso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra?
È stato come incontrarsi faccia a faccia all’improvviso in uno specchio, sempre allarmante. Non ci possiamo riconoscere, non combacia con l’immagine che abbiamo di noi stessi. Perché si tende a rimuovere tutto quanto disturba: ogni difetto fisico, un brutto naso o una bocca asimmetrica, le modificazioni dell’età, i guasti dell’invecchiamento. Rimoviamo perfino l’idea della fine, la coscienza di dover morire.»

Laudomia Bonanni
Laudomia Bonanni, e quest’opera lo testimonia, fu molto attenta a quel panorama umano che risente di congenite situazioni di debolezza (i minori, le donne), grazie anche alle sue esperienze in prima persona: insegnante nelle scuole elementari, consulente di Tribunale Minorile per vent’anni. Come la sua scrittura, “che rimane sorvegliatissima” (dalla bandella de «Il bambino di pietra»), “sorvegliata” lo è anche la sua capacità analitica, che nasce da un talento speculativo che le permette di mantenere un equilibrio che non venga minato – soprattutto per le questioni a tema “femminile” – dall’ideologia e dal conformismo.

Come tematiche e approccio alla psicanalisi, «Il bambino di pietra» mi ha ricordato «Il male oscuro» (1964) di Giuseppe Berto, seppur ci siano grosse differenze stilistiche (Berto utilizzò il flusso di coscienza): in entrambi è presente una ironia di fondo che accompagna la lettura, anche se nella Bonanni è molto sottile e a volte (diciamo) quasi impercettibile, mentre in Berto è evidente, quasi ostentata.

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Piero Fadda