1Q84.
Libro 3 settembre dicembre
di Murakami Haruki
traduzione di Giorgio Amitrano
Einaudi, Torino, 2012
pp. 395
cartaceo € 18,50
ed. e-book € 9,9
di Murakami Haruki
traduzione di Giorgio Amitrano
Einaudi, Torino, 2012
pp. 395
cartaceo € 18,50
ed. e-book € 9,9
Eccolo
l’attesissimo libro 3 di 1Q84, finalmente tradotto in italiano!
Dico subito che si tratta di un’attesa ampiamente ripagata da un testo bello,
avvincente e profondamente significativo, che chiude in degno modo un romanzo
di cui, al di là dell’effimero successo immediato, si serberà sicuramente
memoria.
Riepilogo in breve il profilo
dell’intreccio narrativo e le rilevazioni stilistiche e compositive che avevo
proposto nella recensione ai libri 1 e 2.
Aomame e Tengo all’età di 10 anni, in un’aula della scuola elementare, hanno
avuto un breve e intensissimo contatto fisico, una stretta di mano, di cui
vent’anni dopo, nel 1984, hanno ancora un vivido e struggente ricordo. Da quel
momento, però, le loro vite si sono separate: Aomame, la ragazza, è diventata un’esperta
fisioterapista e braccio esecutivo di un’organizzazione che punisce con la
morte gli uomini che si sono resi colpevoli di violenze domestiche nei
confronti delle donne: un’assassina seriale, insomma; Tengo, il ragazzo, è un
insegnante di matematica che nutre, però, ambizioni letterarie e viene
coinvolto da un influente editor in
una specie di truffa, ossia riscrivere in bello stile il grezzo ma potente
romanzo di una adolescente intitolato La
crisalide d’aria. Da questa situazione di partenza Murakami costruisce un
intreccio narrativo appassionante, intessuto di elementi fantastici e
realistici, di peripezie, colpi di scena, misteri e delucidazioni che si
susseguono ad un ritmo costante e facilmente seguibile dal lettore. Nei primi
due libri (aprile-settembre) vi era perfetta alternanza tra i brani che avevano
come fuoco e punto di vista la vita e le vicende di Aomame e Tengo. Lo
svolgimento narrativo era lineare, come due binari paralleli tra i quali sempre
più di frequente e sempre più significativamente si gettavano ponti, punti di
collegamento. Tutte le caratteristiche stilistiche e compositive di quei primi
due libri vengono riproposte anche in questo, con variazioni micro e
macrostrutturali che in qualche modo ne rendono più ampio e profondo il senso.
Cosicché quella che poteva sembrare, e che in parte è, un’operazione
commerciale, un lasciar nell’attesa per ampliare il successo del romanzo e
assicurarsi le vendite anche del seguito, ha, invece e anche o soprattutto (a
seconda delle simpatie che si nutrono per l’autore) le sue buone ragioni
letterarie: il Libro 3 non è un altro
romanzo, ma ha elementi di discontinuità rispetto ai Libri 1 e 2 che ne giustificano la separazione: come nessun altro
Murakami sa conciliare le ragioni dell’industria culturale con quelle
letterarie.
A livello macrostrutturale, questo libro 3, inserisce un altro fuoco e un altro punto di vista, quello dell’investigatore Ushikawa: la geometrica progressione binaria, diventa così ternaria. Ushikawa, per conto della setta religiosa che si era sentita minacciata dal romanzo “riscritto” da Tengo perché ne svelava i segreti, indaga su Tengo e su Aomame, anch’essa, e per altre ragioni, venuta a trovarsi in rotta di collisione con la stessa organizzazione: indaga, ricostruisce, collega le informazioni, fa ipotesi, verifica, ecc. E spessissimo appare come il personaggio esterno alla vicenda destinato a “darle forma” (e il fatto che sia fisicamente deforme è un contrappunto romanzesco di non poco rilievo); spessissimo il lettore si trova a confrontare e sovrapporre il lavoro di Ushikawa con quello di uno scrittore. Durante la ricostruzione del suo passato, l’autore scrive che Ushikawa «sviluppò invece l’abitudine, quando parlavano gli altri, di ascoltarli con molta attenzione, qualsiasi cosa dicessero. Cercava di ricavarne un vantaggio, e con il tempo questa abitudine divenne per lui uno strumento utile per scoprire verità preziose».
A livello macrostrutturale, questo libro 3, inserisce un altro fuoco e un altro punto di vista, quello dell’investigatore Ushikawa: la geometrica progressione binaria, diventa così ternaria. Ushikawa, per conto della setta religiosa che si era sentita minacciata dal romanzo “riscritto” da Tengo perché ne svelava i segreti, indaga su Tengo e su Aomame, anch’essa, e per altre ragioni, venuta a trovarsi in rotta di collisione con la stessa organizzazione: indaga, ricostruisce, collega le informazioni, fa ipotesi, verifica, ecc. E spessissimo appare come il personaggio esterno alla vicenda destinato a “darle forma” (e il fatto che sia fisicamente deforme è un contrappunto romanzesco di non poco rilievo); spessissimo il lettore si trova a confrontare e sovrapporre il lavoro di Ushikawa con quello di uno scrittore. Durante la ricostruzione del suo passato, l’autore scrive che Ushikawa «sviluppò invece l’abitudine, quando parlavano gli altri, di ascoltarli con molta attenzione, qualsiasi cosa dicessero. Cercava di ricavarne un vantaggio, e con il tempo questa abitudine divenne per lui uno strumento utile per scoprire verità preziose».
Oltre alla linearità, alla chiarezza
espositiva, ad una sorta di ritualità, di scenografia fissa che accoglieva il
calibrato dosaggio tra dialoghi, soliloqui riflessivi, azione e descrizioni,
nella recensione ai Libri 1 e 2,
avevo rilevato la stupefacente capacità di Murakami di rappresentare
visivamente dettagli e particolari, di dare concretezza realistica alle scene.
In questo Libro 3 queste prodezze
scemano di numero, forse perché avevano quasi esaurito la loro funzione di
ancoraggio alla realtà degli elementi fantastici che fanno parte del romanzo.
Insomma, qui Komatsu si limita ad accendersi una sigaretta coi fiammiferi, del
locale o suoi, non ha più grande importanza. Pur scemando di numero, quelle
strepitose e peculiari notazioni non mancano e su una di esse vale la pena di
soffermarsi. In piena notte, Tengo riceve una telefonata che gli annuncia la
morte del padre, un padre non amato, dal quale non si era mai sentito amato, e
l’autore nota che «senza un vero motivo Tengo si passò la cornetta dalla mano
destra alla sinistra». Tutto il groviglio emotivo che una notizia del genere
provoca è riassunto e visivamente rappresentato in gesto, in una riga: Tengo
non sa che pensare, ma, al contempo, non può stare fermo. Ora, in un altro
romanzo di uno scrittore che si richiamava esplicitamente al modernismo (Munch,
Proust…), in una situazione, per pura coincidenza, perfettamente analoga –
figlio adulto che riceve per telefono la notizia della morte di un padre non
amato e dal quale non si era mai sentito amato – ci sono un discreto numero di
pagine di sproloqui emotivo-esistenziali che si chiudono press’a poco così
(cito a memoria): «cosa devo fare? Mi devo masturbare?». Faccio i nomi: Karl
Knausgard, La mia colpa I, di cui,
volendo, potete leggere la recensione tra i byte
stesso sito. Certo, un caso limite, di cui Murakami rappresenta l’estremo
opposto, ma è un paragone che serve ad illustrare una caratteristica specifica
dell’arte dello scrittore giapponese: saltare a piè pari tutte le degenerazioni
del modernismo letterario e ricostruire uno stile della narrazione su basi
nuove, diverse, originali, che scaturiscono da un autentico e personale modo di
vedere il mondo. Nello specifico, un indefesso sforzo di opporre al caos,
all’indecifrabile, al tortuoso, allo spaventoso, all’inspiegabile, la volontà
di capire, di ordinare, anche con l’aiuto delle metodica e rituale
meticolosità, e di incidere quel tanto che si può con il proprio libero
arbitrio, con la propria volontà sul mondo e sulla rappresentazione che di esso
se ne può dare.
La costante e geometrica alternanza
(ternaria qui, binaria nei primi due libri) dei fuochi e dei punti di vista
della narrazione dà vita ad uno schema rigoroso e puntualmente riproposto: ogni
capitolo è costituito da un riepilogo dello stato della vicenda e dall’ulteriore
scatto, il passo in avanti. Uno schema che affronta i rischi della prolissità e
della monotonia, superandoli quasi sempre in virtù del coinvolgimento emotivo
del lettore dettato dall’ingegnosità delle peripezie romanzesche e dall’utilità
del servizio che un tale procedimento offre. È un procedimento che fa della
ripetitività, della ritualità, della fissità della scenografia una forma di
rispetto per il lettore, del quale non viene messa a dura prova la capacità di
seguire il filo della vicenda: Murakami mette il suo lettore in grado di
capire, di farsi un’idea precisa degli avvenimenti. In un romanzo così lungo,
solo due volte l’autore interviene direttamente abbandonando per poche righe il
punto di vista del personaggio titolare del capitolo, e entrambe le volte lo fa
chiamando in causa il lettore, dandogli del tu, facendolo sentire alla stessa
altezza dell’autore: nella prima per discutere su una serie di ipotesi che
avrebbero cambiato il corso della vicenda, nella seconda, in maniera più
esplicita e colloquiale, per descrivere la forma dei little people (personaggi fantastici) dice «fatta eccezione per le
dimensioni minute, erano più o meno come la mia o la tua [del lettore]».
Si è detto della ritualità, della fissità
delle scenografie, a tale riguardo va notato che in romanzo di 1200 pagine,
equamente distribuite tra dialoghi, soliloqui, azioni e descrizioni, i dialoghi
avvengono sempre tra due persone sedute, una di fronte all’altra (a meno che
non siano conversazioni telefoniche). Solo una volta in tutto il romanzo un
personaggio pronuncia una battuta stando in piedi. Si tratta di una situazione
talmente ripetuta e fissa che Murakami non si risparmia una punta di sottile e
intelligente autoironia: in una situazione particolare in cui uno dei
personaggi deve dialogare con un prigioniero sequestrato in una stanza priva di
mobili, la sedia se la porta dietro (“se la porta da casa” si direbbe in forma
gergale). E in realtà, sottigliezza e intelligenza sono sparse a piene mani i
tutto il romanzo.
Quasi a compensazione del ridotto numero
dei dettagli realistici, in questo Libro
3 si infittiscono i riferimenti impliciti o espliciti all’arte della
scrittura e alla sua concreta pratica. Ho già fatto cenno a quanto l’attività e
le attitudini di Ushikawa somiglino a quelle di uno scrittore, e si possono
aggiungere molti altri riferimenti, tra cui questo che mi sembra
particolarmente indicativo: durante la conversazione tra due personaggi, l’autore
scrive: «seguì un lungo silenzio. Ci sarebbe stato il tempo di attraversare una
stanza lunga e stretta prendere un dizionario, controllare il significato di
una parola, e tornare indietro». L’autore (ripeto rarissimamente in primo
piano) si autorappresenta in un atto concreto di scrittura. In una qualche
maniera pone tra parentesi il romanzo e mettendosi alla stessa altezza del
lettore che legge lo riporta per un momento ad una realtà esterna ad esso. E in
questa prospettiva, quella del rapporto tra realtà e finzione, tra mondo reale
e mondo fantastico, tra realtà e letteratura, che è uno dei temi portanti
dell’opera, assume una particolare rilevanza anche un altro implicito
riferimento alla scrittura. Per almeno due volte, un personaggio durante un
dialogo si ferma e riflette per “scegliere bene le parole”, proprio come
dovrebbe fare uno scrittore. E questo “scegliere bene le parole” è la zona di
intersezione, di sovrapposizione tra l’individualità riflessiva e la
comunicabilità dialogica: è una forma di rispetto per le cose e per l’altro.
1Q84, il tempo parallelo, lo spazio della fantasmagoria
romanzesca, è dentro il 1984, ne è una parentesi, una bolla entro cui alcune
regole valgono per entrambi e altre sono invece specifiche del mondo creato ex novo dall’opera letteraria, tanto che
Aomame può dire a buon diritto che Alla
ricerca del tempo perduto di Proust è la storia di «un altro mondo,
totalmente diverso da questo». 1Q84 è
la letteratura dentro la realtà; peccando di superbia, propongo un’autocitazione
dalla recensione ai Libri 1 e 2: “l’una
e l’altra entrano in comunicazione attraverso le sfasature, le “porte
comunicanti”, interagiscono, si condizionano, si certificano e si riconoscono
come diverse ma intimamente interdipendenti. La vita dello spirito,
dell’astrazione, della speculazione filosofica si svolge dentro la realtà
materiale, quotidiana, comune e, senza farne il fine ultimo, non disdegnano una
sana capacità di intrattenere”.
Aggiungo che sono convinto di aver
assistito alla nascita di un classico, di un’opera, cioè, in grado di parlare
anche alle generazioni future, dicendo loro cose diverse da quanto ha detto
alla nostra, perché, al di là dell’ampiezza e della complessità dei temi, dei
concetti, delle immagini e dell’ingegnoso intreccio narrativo, Murakami ha
offerto una forma nuova e inedita di guardare al mondo e alle relazioni tra
realtà, fantasia e letteratura.