Te la racconto così
di Cetta Petrollo
Giulio Perrone editore, 2012
pp. 123
€ 12,00
Giulio Perrone editore, 2012
pp. 123
€ 12,00
Immaginate una serie di piccoli dipinti parlanti stesi sul bagnasciuga sul far della sera e poi sotto il sole cocente di Ferragosto. Immaginate che questi dipinti, acquerelli luminosi e sfumati, vi parlino di ciò che hanno visto anni fa, del ricordo di una gioventù che si fa mitica ma che non istiga al moralismo e al luogo comune dei bei tempi andati.
Frammenti di passato, una sorprendente capacità affabulatoria e tanta, tanta leggerezza. Che se venisse un'ondata niente si salverebbe e il mare inghiottirebbe tutto in un attimo. Ma il mare è calmo, e anche lui ha buon gioco ad avere al suo fianco questi lievi testimoni di un tempo che fu e, contrastivamente, del tempo che è, e che è diverso: non peggiore, non migliore. Diverso.
Te la racconto così non è una raccolta di favole, o quantomeno non lo è, per così dire, in prima istanza. Sono storielle impalpabili incentrate su oggetti, usanze e figure sociali di un'epoca passata e morta di morte violenta, uccisa dall'esercito implacabile del lavoro interinale, dei cellulari e dei callcenter; dai gelati dai mille gusti e dalle bambole perfette che «sembrano cartoni giapponesi in tre d.» (p. 52). Sono storielle che diventano favole nel momento in cui vengono offerte a chi di quei colori e di quei suoni ha solo ricevuto, inevitabilmente, i resoconti più accurati e potrebbe – checché ne pensino i genitori e i nonni – fornire a sua volta descrizioni perfette, sì, ma non li ha vissuti sulla sua pelle. La realtà sfuma nella favola grazie al filtro distanziante del tempo e a una sensibilità poetica che sa epurare il ricordo da quanto è “materico” e contingente preservandone l'essenza e dilatandolo in respiri poetici di rara delicatezza. È un po' ciò che avviene in chiusura di una delle più note canzoni di Francesco Guccini, a ben vedere: «Il bimbo ristette, lo sguardo era triste / e gli occhi guardavano cose mai viste / e poi disse al vecchio con voce sognante: / "Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"».
Frammenti di passato, una sorprendente capacità affabulatoria e tanta, tanta leggerezza. Che se venisse un'ondata niente si salverebbe e il mare inghiottirebbe tutto in un attimo. Ma il mare è calmo, e anche lui ha buon gioco ad avere al suo fianco questi lievi testimoni di un tempo che fu e, contrastivamente, del tempo che è, e che è diverso: non peggiore, non migliore. Diverso.
Te la racconto così non è una raccolta di favole, o quantomeno non lo è, per così dire, in prima istanza. Sono storielle impalpabili incentrate su oggetti, usanze e figure sociali di un'epoca passata e morta di morte violenta, uccisa dall'esercito implacabile del lavoro interinale, dei cellulari e dei callcenter; dai gelati dai mille gusti e dalle bambole perfette che «sembrano cartoni giapponesi in tre d.» (p. 52). Sono storielle che diventano favole nel momento in cui vengono offerte a chi di quei colori e di quei suoni ha solo ricevuto, inevitabilmente, i resoconti più accurati e potrebbe – checché ne pensino i genitori e i nonni – fornire a sua volta descrizioni perfette, sì, ma non li ha vissuti sulla sua pelle. La realtà sfuma nella favola grazie al filtro distanziante del tempo e a una sensibilità poetica che sa epurare il ricordo da quanto è “materico” e contingente preservandone l'essenza e dilatandolo in respiri poetici di rara delicatezza. È un po' ciò che avviene in chiusura di una delle più note canzoni di Francesco Guccini, a ben vedere: «Il bimbo ristette, lo sguardo era triste / e gli occhi guardavano cose mai viste / e poi disse al vecchio con voce sognante: / "Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"».
Più del contenuto è importante la forma, verrebbe da dire. Non perché il contenuto sia privo di interesse o di qualità, tutt'altro. Ilfatto è che siamo in quelle zone della letteratura, invero non infrequenti, in cui la forma non è soltanto latrice di un contenuto ma è contenuto essa stessa. Walter Pedullà, critico attento e sempre sensibile agli aspetti linguistici, nella prefazione a una precedente opera di Cetta Petrollo parlava di «una prosa che sembra registrare una realtà fatta di pensieri in incubazione con sintassi dissestata, grammatica insofferente di regole e lessico inaccessibile: o tale almeno fino a quando non si sia presa confidenza con lo“scandalo linguistico» (Cetta Petrollo, Senza permesso, Roma, StampaAlternativa, 2007, pp. 3-4). Siamo al centro del complesso rapporto tra parola e suo referente. La realtà che giganteggiava in Senza permesso richiedeva, necessariamente, una lingua salterina e impegnata ad “autosabotarsi” nel tentativo di tener dietro ai cortocircuiti dell'esistente; qui abbiamo piuttosto la situazione opposta: la narrazione si appiglia a un passato sublimato in ricordo che ha l'andamento circolare e sgombro da asperità proprio, appunto, delle favole. Il significante è mimetico rispetto al significato, e spesso è proprio il ritmo sinuoso della scrittura, l'onda lunga delle parole e la risacca che ne segue, a fissare il tono e a far intuire il senso di quanto segue: la circolarità della sintassi anticipa quella del racconto.
Altri espedienti a cui Cetta Petrollo ricorre abilmente sono frequenti sbalzi temporali che stabiliscono un contatto col lettore invitato a tener desta l'attenzione: «[...] Ogni tanto la morte aleggiava vicina, proprio vicina, addirittura nel cortile, state zitti, state zitti c'è una bambina che sta molto male» (p. 61), un uso intensivo del 'che' paratattico ed elencazioni esuberanti che sono impennate di poesia e velocità: «[...] Una volta erano mamme intorno ai venti e poi ai trenta, durette di carattere, toste d'animo, fortissime, sveglissime di giovinezza, odorose ancora di vita, di pelle sana,di sesso» (p. 47).
Non è un testo che si presta bene a essere recensito, per la verità. Dopo averlo letto viene spontaneo raccomandarne la lettura, ma è meno spontaneo spiegare perché lo si stia consigliando. Ed è questa, probabilmente, la riprova della sua validità: è una felice prova di scrittura che trova in sé la sua giustificazione. È un bel libro, semplicemente. E scusate se è poco.
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